I mondiali di calcio del 1974, svoltisi nell’ex Germania
dell’Ovest, videro la partecipazione dello Zaire, formazione proveniente dalla
zona sub-sahariana.
In realtà non era la prima squadra africana a prendere parte
al torneo: già in passato vi fu l’Egitto, nell’edizione del 1934, ed il Marocco
nei più recenti giochi del 1970
in Messico, ma era il primo team a provenire da quella
che definiamo “Africa nera”.
Maglia verde prato con le tre strisce gialle dell’Adidas e
stemmone con il disegno di un leopardo sul petto, questa compagine un po’ naif
e sprovveduta si rese subito molto simpatica al pubblico; una sorta di armata
Brancaleone ma che ben rendeva l’idea della condizione e del livello del calcio
africano di quel periodo.
Nonostante questo e nonostante il girone di ferro in cui
erano finiti: cioè con Brasile campione uscente ma orfano di Pelè, con la Scozia del futuro rossonero Joe Jordan, unica
squadra ad arrivare ai mondiali senza perdere nemmeno un incontro nelle
qualificazioni e la nazionale slava, compagine sempre temibile, i giocatori
partirono dalla propria terra carichi di entusiasmo e buoni propositi, forti
anche dei premi promessi dal presidente Mobutu.
Piccolo passo indietro…
Joseph-Desirè Mobutu guidava il timone della Zaire nelle
vesti di presidente, in realtà un vero e proprio dittatore che vedeva nello
sport l’ideale strumento di propaganda per il regime e per imporre il suo
scomodo personaggio.
Salito al potere grazie ad un colpo di stato supportato
dagli Usa nel 1965, fa fuori, nel senso letterario del termine, tutti i suoi
avversari politici e sviluppa un profondo culto della personalità.
Innanzitutto incomincia un processo di decolonizzazione
integralista, liberando il paese da tutte le influenze dell’ex colonizzatore
belga: a quel tempo lo stato africano era conosciuto come Congo, con capitale
Leopoldville; il despota ne cambiò il nome in Zaire (che resterà fino al 1997)
rinominando la capitale in Kinshasa, città che aveva ripulito dalla criminalità
con una maxi retata, conclusasi con una esecuzione sommaria di massa nei
sotterranei dello stadio.
Impose gli abiti tradizionali negli edifici pubblici e che
ogni abitante abbandonasse il proprio nome francofono e ne assumesse uno
tipicamente tribale, lui stesso diventò Mobutu Sese Seko Kuku Ngbendu Wa
Zabanga che tradotto sarebbe l’altisonante: Mobutu il guerriero che va di
vittoria in vittoria senza che nessuno possa fermarlo.
Il dittatore inoltre riteneva che anche lo sport dovesse
fare la sua parte: incominciò a far tornare in patria tutti i giocatori
congolesi che militavano nel campionato belga e, a proprie spese, ne creò uno interno
nello Zaire.
Ed il calcio zairese si rivela vincente grazie ai successi
in coppa d’Africa nel 1968 e nel 1974; anche a livello di club le soddisfazioni
non mancano tanto che nell’arco di sei anni, l’equivalente della nostra Coppa
Campioni viene vinta per ben tre volte da squadre locali.
Alla guida della nazionale, orgoglio del presidente, viene
messo lo slavo Vidinic (aveva guidato la nazionale del Marocco ai giochi del
1970, perciò già esperto di calcio africano) solo perché la Fifa non ammette deroghe sui
deliri di un dittatore che, totalmente pieno di se, pretendeva di non affidare
i sui ragazzi a nessun allenatore se non a lui stesso; sfortunatamente per Mobutu
lo sport ha dei regolamenti da rispettare. Riesce a metterci però egualmente lo
zampino: sostituisce il soprannome con cui i giocatori nazionali venivano
chiamati da “Leoni” a “Leopardi” in onore del fatto che lui indossasse sempre
in pubblico un cappello fatto di pelle di leopardo.
Ad ogni modo, anche senza il despota alla guida, la squadra
riesce a staccare il biglietto per i Mondiali.
L’ordine del presidente è perentorio: “Onorare il proprio
paese e soprattutto lui, che si identificava in tutto e per tutto con la
propria nazione, e per esteso anche con la propria squadra, non coprirsi di
ridicolo ed evitare figuracce”. Inoltre promette ai giocatori case, auto e
denaro.
Rieccoci in terra teutonica, nel giorno della partita
d’esordio dei “Leopards” contro gli scozzesi; tutto sommato non termina neanche
male poiché, anche se perdono per 2
a 0, gli africani giocano a viso aperto con uno
sprezzante 4-2-4 che diverte il pubblico neutrale.
Meno divertito però è Mobutu che, non potendo tollerare
nessuna sconfitta, comunica telefonicamente con la squadra che tutti i premi
sono stati revocati.
Scoppia una vera ribellione nello spogliatoio, i leopardi si
rifiutano di giocare la seconda partita contro la Yogoslavia.
Dopo ore di trattative l’incontro si gioca, anche se per gli
africani sarebbe stato meglio il contrario dato che la partita termina con un
devastante 9 a
0, un disastro completo, con il portiere Kazadi che in lacrime chiede di essere
sostituito poiché non riesce a sopportare l’umiliazione. Narra però una leggenda
che l’allenatore Vidic ricevette una telefonata in panchina dove veniva
“caldamente” invitato a sostituire il portiere.
Mobutu è completamente fuori di sé; manda i suoi scagnozzi
nell’albergo dove è in ritiro la squadra e, dopo averla rinchiusa in una
stanza, comunicano questo messaggio molto chiaro:
“Al Brasile bastano 3 gol per qualificarsi, fin qui va bene,
ma se perderete con 4 gol di differenza non prendetevi la briga di tornare a
casa e soprattutto, ricordatevi, che la giurisdizione delle vostre famiglie
sarà di nostra totale competenza.!”.
La tensione sale alle stelle: il sogno di giocare i mondiali
per la gloria ed i premi si trasforma nell’incubo di ritrovarsi a giocare una
partita per la vita, sia loro e sia quella delle loro famiglie.
Sabato 22 giugno
I leopardi tentano di arginare in tutte le maniere la
corazzata verdeoro che, arrivati all’85imo, ha già archiviato la partita con le
reti di Jairzinho, Rivelino e Valdomiro; in questo minuto, però, la storia
lascia il posto alla leggenda.
Lo Zaire commette fallo su Valdomiro poco fuori la propria
area di rigore. Da quella posizione e con il sinistro magico e fulmineo che si
ritrova Rivelino è praticamente un calcio di rigore.
Mille e più pensieri si affollano nella mente dei giocatori
mentre si dispongono in barriera: la paura delle ritorsioni di Mobutu, la fine
dei loro compagni, le sorti delle loro famiglie.
No, non può finire così, non deve finire così! Non è giusto!
E’ questo che sconvolge i pensieri del terzino Ilunga Mwepu.
Decide di agire.
Si stacca dalla barriera prima del fischio e corre verso la
palla, calciandola con forza, rischiando di colpire Rivelino, e spedendola ben
oltre il centrocampo.
All’arbitro non resta altro che ammonirlo.
All’arbitro non resta altro che ammonirlo.
In realtà Ilunga non avrebbe neanche dovuto giocare quella
partita, poiché nel match contro gli slavi aveva rimediato un cartellino rosso,
ma per uno scambio di persona a scontare la giornata di squalifica fu
l’attaccante N’Diaye, nonostante lo stesso terzino avesse ammesso la propria
colpa.
Il pubblico sugli spalti e gli stessi giocatori brasiliani,
dopo un attimo di stordimento generale, esplodono in una fragorosa risata:
“Poveri africani, come hanno fatto ad arrivare sino a questo
punto senza conoscere le regole fondamentali del calcio?”. Questo è il pensiero
che serpeggia nella mente di tutti, o per lo meno in quella di chi non
conosceva i retroscena.
Ne scatta anche un parapiglia tra i calciatori: provati
dallo stress e sentendosi derisi, i leopardi si accapigliano con gli avversari,
fortunatamente la rissa viene subito sedata.
I verdeoro trovarono tutto ciò molto divertente; il calcio
di punizione seguente si risolve con un niente di fatto, poi i giocatori fecero melina fino al triplice fischio,
probabilmente colti da un senso di compassione evitarono di infierire.
Per anni quel gesto è stato visto come un segno di
infantilità ed arretratezza culturale calcistica africana, lontano ancora dalle
cime del professionismo; in realtà quella folle corsa verso il pallone, dettato
forse dalla paura, era un completo atto di insubordinazione e quel calcio un
“basta” gridato con rabbia e forza contro quello sport ormai completamente
saldato con la politica.
Mwepu aveva salvato la vita ai suoi compagni ed alle loro
famiglie, di certo non l’onore del despota; tornati in patria i loro contratti
vennero cestinati e loro furono bollati come “persone non gradite”, Mobutu fece
cadere nell’oblio calcio e calciatori che si ritrovarono a vivere quasi da
emarginati ed in povertà.
Per cancellare quello che ritenne un danno all’immagine del
suo sanguinoso regime organizzò, nell’ottobre dello stesso anno, il famosissimo
incontro di boxe “The rumbe in the jungle” tra Muhammad Alì e George Foreman. Il
match si svolse nello stadio di Kinshasa, probabilmente ancora macchiato di sangue
dell’esecuzioni avvenute nei sotterranei.
Nel 2002 lo stesso giocatore rivela i retroscena di quei
tristi mondiali dichiarando, inoltre, in una intervista alla BBC:
“Sono orgoglioso, e lo sarò sempre, di aver
rappresentato l’Africa nera alla Coppa del Mondo. Ma abbiamo stupidamente
creduto che saremmo tornati a casa diventando milionari. Guardatemi ora, vivo
come un vagabondo. Quando tornammo in Zaire i nostri contratti vennero
stracciati e nessuna promessa mantenuta. Mobutu sosteneva che avessimo riportato
indietro di venti anni la percezione del calcio in Africa. No, no, tornassi
indietro lavorerei sodo per diventare un contadino e nulla di più”
Sono passati 40 anni da quel giorno, ben 10 mondiali, eppure
quel gesto, complice la visibilità che offre Youtube, viene considerato ancora estremamente
comico, poiché il dramma di quei ragazzi non è stato diffuso come si sarebbe
dovuto.
In pochi comprendono che Mwepu è stato un eroe, un simbolo
di una ribellione giusta e pura contro un totalitarismo presente ormai anche
all’interno dello sport.
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