domenica 5 ottobre 2014

Paura di giocare



I mondiali di calcio del 1974, svoltisi nell’ex Germania dell’Ovest, videro la partecipazione dello Zaire, formazione proveniente dalla zona sub-sahariana.
In realtà non era la prima squadra africana a prendere parte al torneo: già in passato vi fu l’Egitto, nell’edizione del 1934, ed il Marocco nei più recenti giochi del 1970 in Messico, ma era il primo team a provenire da quella che definiamo “Africa nera”.
Maglia verde prato con le tre strisce gialle dell’Adidas e stemmone con il disegno di un leopardo sul petto, questa compagine un po’ naif e sprovveduta si rese subito molto simpatica al pubblico; una sorta di armata Brancaleone ma che ben rendeva l’idea della condizione e del livello del calcio africano di quel periodo.
Nonostante questo e nonostante il girone di ferro in cui erano finiti: cioè con Brasile campione uscente ma orfano di Pelè,  con la Scozia del futuro rossonero Joe Jordan, unica squadra ad arrivare ai mondiali senza perdere nemmeno un incontro nelle qualificazioni e la nazionale slava, compagine sempre temibile, i giocatori partirono dalla propria terra carichi di entusiasmo e buoni propositi, forti anche dei premi promessi dal presidente Mobutu.

Piccolo passo indietro…
Joseph-Desirè Mobutu guidava il timone della Zaire nelle vesti di presidente, in realtà un vero e proprio dittatore che vedeva nello sport l’ideale strumento di propaganda per il regime e per imporre il suo scomodo personaggio.
Salito al potere grazie ad un colpo di stato supportato dagli Usa nel 1965, fa fuori, nel senso letterario del termine, tutti i suoi avversari politici e sviluppa un profondo culto della personalità.
Innanzitutto incomincia un processo di decolonizzazione integralista, liberando il paese da tutte le influenze dell’ex colonizzatore belga: a quel tempo lo stato africano era conosciuto come Congo, con capitale Leopoldville; il despota ne cambiò il nome in Zaire (che resterà fino al 1997) rinominando la capitale in Kinshasa, città che aveva ripulito dalla criminalità con una maxi retata, conclusasi con una esecuzione sommaria di massa nei sotterranei dello stadio.
Impose gli abiti tradizionali negli edifici pubblici e che ogni abitante abbandonasse il proprio nome francofono e ne assumesse uno tipicamente tribale, lui stesso diventò Mobutu Sese Seko Kuku Ngbendu Wa Zabanga che tradotto sarebbe l’altisonante: Mobutu il guerriero che va di vittoria in vittoria senza che nessuno possa fermarlo.

Il dittatore inoltre riteneva che anche lo sport dovesse fare la sua parte: incominciò a far tornare in patria tutti i giocatori congolesi che militavano nel campionato belga e, a proprie spese, ne creò uno interno nello Zaire.
Ed il calcio zairese si rivela vincente grazie ai successi in coppa d’Africa nel 1968 e nel 1974; anche a livello di club le soddisfazioni non mancano tanto che nell’arco di sei anni, l’equivalente della nostra Coppa Campioni viene vinta per ben tre volte da squadre locali.
Alla guida della nazionale, orgoglio del presidente, viene messo lo slavo Vidinic (aveva guidato la nazionale del Marocco ai giochi del 1970, perciò già esperto di calcio africano) solo perché la Fifa non ammette deroghe sui deliri di un dittatore che, totalmente pieno di se, pretendeva di non affidare i sui ragazzi a nessun allenatore se non a lui stesso; sfortunatamente per Mobutu lo sport ha dei regolamenti da rispettare. Riesce a metterci però egualmente lo zampino: sostituisce il soprannome con cui i giocatori nazionali venivano chiamati da “Leoni” a “Leopardi” in onore del fatto che lui indossasse sempre in pubblico un cappello fatto di pelle di leopardo.
Ad ogni modo, anche senza il despota alla guida, la squadra riesce a staccare il biglietto per i Mondiali.
L’ordine del presidente è perentorio: “Onorare il proprio paese e soprattutto lui, che si identificava in tutto e per tutto con la propria nazione, e per esteso anche con la propria squadra, non coprirsi di ridicolo ed evitare figuracce”. Inoltre promette ai giocatori case, auto e denaro.

Rieccoci in terra teutonica, nel giorno della partita d’esordio dei “Leopards” contro gli scozzesi; tutto sommato non termina neanche male poiché, anche se perdono per 2 a 0, gli africani giocano a viso aperto con uno sprezzante 4-2-4 che diverte il pubblico neutrale.
Meno divertito però è Mobutu che, non potendo tollerare nessuna sconfitta, comunica telefonicamente con la squadra che tutti i premi sono stati revocati.
Scoppia una vera ribellione nello spogliatoio, i leopardi si rifiutano di giocare la seconda partita contro la Yogoslavia.
Dopo ore di trattative l’incontro si gioca, anche se per gli africani sarebbe stato meglio il contrario dato che la partita termina con un devastante 9 a 0, un disastro completo, con il portiere Kazadi che in lacrime chiede di essere sostituito poiché non riesce a sopportare l’umiliazione. Narra però una leggenda che l’allenatore Vidic ricevette una telefonata in panchina dove veniva “caldamente” invitato a sostituire il portiere.
Mobutu è completamente fuori di sé; manda i suoi scagnozzi nell’albergo dove è in ritiro la squadra e, dopo averla rinchiusa in una stanza, comunicano questo messaggio molto chiaro:
“Al Brasile bastano 3 gol per qualificarsi, fin qui va bene, ma se perderete con 4 gol di differenza non prendetevi la briga di tornare a casa e soprattutto, ricordatevi, che la giurisdizione delle vostre famiglie sarà di nostra totale competenza.!”.
La tensione sale alle stelle: il sogno di giocare i mondiali per la gloria ed i premi si trasforma nell’incubo di ritrovarsi a giocare una partita per la vita, sia loro e sia quella delle loro famiglie.

Sabato 22 giugno
I leopardi tentano di arginare in tutte le maniere la corazzata verdeoro che, arrivati all’85imo, ha già archiviato la partita con le reti di Jairzinho, Rivelino e Valdomiro; in questo minuto, però, la storia lascia il posto alla leggenda.
Lo Zaire commette fallo su Valdomiro poco fuori la propria area di rigore. Da quella posizione e con il sinistro magico e fulmineo che si ritrova Rivelino è praticamente un calcio di rigore.
Mille e più pensieri si affollano nella mente dei giocatori mentre si dispongono in barriera: la paura delle ritorsioni di Mobutu, la fine dei loro compagni, le sorti delle loro famiglie.
No, non può finire così, non deve finire così! Non è giusto!
E’ questo che sconvolge i pensieri del terzino Ilunga Mwepu. Decide di agire.
Si stacca dalla barriera prima del fischio e corre verso la palla, calciandola con forza, rischiando di colpire Rivelino, e spedendola ben oltre il centrocampo.
All’arbitro non resta altro che ammonirlo.
In realtà Ilunga non avrebbe neanche dovuto giocare quella partita, poiché nel match contro gli slavi aveva rimediato un cartellino rosso, ma per uno scambio di persona a scontare la giornata di squalifica fu l’attaccante N’Diaye, nonostante lo stesso terzino avesse ammesso la propria colpa.
Il pubblico sugli spalti e gli stessi giocatori brasiliani, dopo un attimo di stordimento generale, esplodono in una fragorosa risata:
“Poveri africani, come hanno fatto ad arrivare sino a questo punto senza conoscere le regole fondamentali del calcio?”. Questo è il pensiero che serpeggia nella mente di tutti, o per lo meno in quella di chi non conosceva i retroscena.
Ne scatta anche un parapiglia tra i calciatori: provati dallo stress e sentendosi derisi, i leopardi si accapigliano con gli avversari, fortunatamente la rissa viene subito sedata.
I verdeoro trovarono tutto ciò molto divertente; il calcio di punizione seguente si risolve con un niente di fatto, poi i giocatori  fecero melina fino al triplice fischio, probabilmente colti da un senso di compassione evitarono di infierire.

Per anni quel gesto è stato visto come un segno di infantilità ed arretratezza culturale calcistica africana, lontano ancora dalle cime del professionismo; in realtà quella folle corsa verso il pallone, dettato forse dalla paura, era un completo atto di insubordinazione e quel calcio un “basta” gridato con rabbia e forza contro quello sport ormai completamente saldato con la politica.
Mwepu aveva salvato la vita ai suoi compagni ed alle loro famiglie, di certo non l’onore del despota; tornati in patria i loro contratti vennero cestinati e loro furono bollati come “persone non gradite”, Mobutu fece cadere nell’oblio calcio e calciatori che si ritrovarono a vivere quasi da emarginati ed in povertà.
Per cancellare quello che ritenne un danno all’immagine del suo sanguinoso regime organizzò, nell’ottobre dello stesso anno, il famosissimo incontro di boxe “The rumbe in the jungle” tra Muhammad Alì e George Foreman. Il match si svolse nello stadio di Kinshasa, probabilmente ancora macchiato di sangue dell’esecuzioni avvenute nei sotterranei.

Nel 2002 lo stesso giocatore rivela i retroscena di quei tristi mondiali dichiarando, inoltre, in una intervista alla BBC:
“Sono orgoglioso, e lo sarò sempre, di aver rappresentato l’Africa nera alla Coppa del Mondo. Ma abbiamo stupidamente creduto che saremmo tornati a casa diventando milionari. Guardatemi ora, vivo come un vagabondo. Quando tornammo in Zaire i nostri contratti vennero stracciati e nessuna promessa mantenuta. Mobutu sosteneva che avessimo riportato indietro di venti anni la percezione del calcio in Africa. No, no, tornassi indietro lavorerei sodo per diventare un contadino e nulla di più

Sono passati 40 anni da quel giorno, ben 10 mondiali, eppure quel gesto, complice la visibilità che offre Youtube, viene considerato ancora estremamente comico, poiché il dramma di quei ragazzi non è stato diffuso come si sarebbe dovuto.
In pochi comprendono che Mwepu è stato un eroe, un simbolo di una ribellione giusta e pura contro un totalitarismo presente ormai anche all’interno dello sport.

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