sabato 19 luglio 2014

La vittima del Maracanà



Da una finestra sulle strade di Rio, dopo la finalina tra Brasile ed Olanda, persa dai padroni di casa, viene esposto uno striscione arancione con una scritta bianca: “Barbosa-1950, finalmente ti lasceranno riposare in pace.”

Moacir Barbosa Nascimento viene alla luce a Campinas, in Brasile, il 27 marzo 1921, figlio di immigrati africani.
La sua non sarà un’infanzia felice, la plebe indigena, che ha salutato per sempre la sua terra natia a bordo di navi di mercanti di schiavi, stenta a sopravvivere nei vicoli mentre la borghesia creola non fa altro che arricchirsi ed ingrassarsi.
Appena ha la possibilità trova lavoro in una fabbrica di imballaggi; ma è felice solo quando calcia un pallone di stracci: è come se prendesse a calci la miseria e la povertà delle sue strade. E lo fa con forza.
Purtroppo i suoi non sono piedi capaci di disegnare, piuttosto scolpiscono.

Un giorno l’allenatore dell’Ypiranga  lo nota, nota il suo fisico possente, i muscoli guizzanti e le sue braccia robuste che finiscono con mani poderose.
Lo convince a provare giocare in porta, che tra i pali avrebbe potuto fare la differenza, gli dimostra che campione può essere anche chi quella rete la difende, invece di gonfiarla.

Alcuni anni dopo sarà il Vasco da Gama a cercarlo e portarlo nel massimo campionato carioca; il suo stile elegante e senza eccessi, capace di bloccare un pallone al volo con una sola mano, lo consacra come miglior baluardo brasiliano e gli spalanca le porte della selecao: è il primo portiere di colore nella nazionale verdeoro. Oramai è un personaggio di culto, l’orgoglio dei mulatti: aveva sconfitto il razzismo e aveva dato una dignità agli emarginati, agli esclusi, ai senza identità e ai senza terra.

1950
Barbosa ha 28 anni, sposato con la dolce Clotilde, e non vede l’ora di potersi misurare con i portieri più forti del mondo: quell’anno la Coppa Rimet verrà giocata in Brasile, la prima dalla fine della II guerra mondiale, nel nuovo tempio del calcio: il Maracanà.

La nazionale carioca passa agevolmente le fasi eliminatorie, per presentarsi nel girone finale; in questa edizione il comitato abolisce gli scontri diretti pertanto la coppa verrà assegnata alla squadra che chiuderà in vetta il quadrangolare conclusivo.
Spazzati via Svezia e Spagna, l’unico ostacolo rimasto è l’Uruguay.
Sembra poco più di una formalità: il divario tra le due formazioni è enorme, tanto più che ai brasiliani basta un pareggio per diventare campioni. Nessun uruguaiano crede nell’impresa della propria squadra.
E’ il 16 luglio, per vedere quella partita i moribondi rinviano la loro morte ed i neonati si sbrigano a nascere.
Mentre le squadre si apprestano a salire la scaletta che dagli spogliatoi porta al terreno di gioco, l’uruguagio Verela disse al suo connazionale Miguez:
“Non vedi che faccia da stupido ha il portiere, vorresti farmi credere che proprio tu non riusciresti a fargli due gol?!”.  Tutto questo a mezzo metro da Barbosa.
Ma Moacir li ignora, nella sua difficile vita ha dovuto subire di ben peggio come ad esempio a Porto Alegre, quando un barbiere gli spalmò la schiuma sul volto e lo cacciò dicendo che non serviva i negri.
A lui bastano le 200mila voci dello stadio che lo acclamano per fargli dimenticare.

Il primo tempo termina sullo zero a zero, senza troppi sussulti, a parte un palo colpito dalla nazionale uruguaiana.
Solamente 45 minuti dividono i brasiliani dal trofeo; il sogno sta per avverarsi.
Già fuori dallo stadio ci sono le limousine che portano il nome di ognuno di loro sulla fiancata, erano state già vendute mezzo milione di magliette con scritto “Brasil campeao”, la zecca stava già preparando i bozzetti per le medaglie ed il giornale aveva già pubblicato la loro foto in prima pagina con la scritta campioni. Il Carnevale anticipato per le strade era pronto a partire.
La selecao si porta anche in vantaggio con una rete di Friaca al riprendere delle ostilità, la formazione dell’Uruguay sembra stia per crollare, invece no.

Riesce a pareggiare con Schiaffino e continua ad attaccare.
Ad 8 minuti dal termine il cielo si rovesciò, facendo passare i brasiliani dalla risata al pianto, dalla gioia alla disperazione.
Ghiggia scatta sulla destra ed a farsi incontro a lui a il terzino Bigode.  Barbosa si sposta un po’ sulla destra spettando il passaggio, ma Ghiggia con le ultime forze rimaste calcia il pallone in quel piccolo spazio, tra il palo e la mano del portiere. Più un cross che un tiro vero e proprio, ma uno strano effetto ingannò l’estremo difensore e la palla si insacca in rete.
Al Maracanà cala il silenzio, a nulla serve che tutta la squadra si lanci in attacco. L’Uruguay è campione del Mondo.
La disperazione corre da i migliaia di poveri stipati nelle favelas ai milionari chiusi nelle loro fazendas e ville sull’oceano
Si raccontano di decine di malori ed infarti allo stadio, si raccontano di decine di suicidi nel paese, si racconta di un bambino ritrovato il giorno dopo sulle gradinate con il volto tra le mani ancora singhiozzante.
Purtroppo non sono leggende.
Barbosa si rende conto che da eroe sta per diventare un reietto. Ed a nulla serve che vinca il trofeo come miglior portiere della manifestazione, è lui il capro espiatorio di quella partita.
Dissero di tutto: che aveva lasciato entrare quel gol di proposito, che un nero non era capace di stare in porta, che la maglietta bianca non si poteva più indossare e da quel giorno la nazionale brasiliana la cambiò.
La Federazione gli consentì di continuare a giocare, per avere una seconda possibilità, ma il clima non era più come prima, perciò decise di ritirarsi: i brasiliani lo avevano condannato a morte, ma senza ucciderlo.
Barbosa per strada viene additato come porta-sfortuna ed evitato, persino gli amici non trovano tempo per dividere una birra al bar; festeggerà da solo in camera davanti alla tv la vittoria dei Mondiale del Brasile in Svezia del 58.

Passarono 13 anni da quel pomeriggio, l’ex portiere viene a sapere che il Maracanà sta cambiando le porte e riesce a procurarsi quella in cui Ghiggia lo aveva trafitto; la sera stessa organizzò un barbecue con alcuni amici ancora fedeli: nessuno si accorse che nel fuoco bruciavano i pezzi verniciati dei due pali. “E’ stata la bistecca più buona che ho mangiato in vita mia” racconterà in una intervista.
Lavora come custode in una piscina a Rio, negli anni 50 non si diventava ricchi col calcio e smesso di giocare bisogna arrangiarsi. Anche la sua amata Clotilde se ne è andata, non per sua scelta, è stata la morte a portarsela via. Per Barbosa la discesa agli inferi non è ancora finita: un giorno in un supermercato una donna lo riconosce e dice al bambino che tiene per mano:
-“Vedi quel signore, un giorno ha fatto piangere il Brasile, che ci ha fatto perdere i mondiali!”. Ed il bimbo scoppia in un pianto convulso.

1993
La nazionale brasiliana sta preparando una partita in vista del campionato mondiale in terra statunitense. A Moacir viene voglia di andare a salutare la selecao, ma le porte del ritiro gli vengono sbarrate in faccia:
-“Tu sei Barbosa? Quel Barbosa?”-
E mentre si allontana sente una voce che invita la sicurezza a non farlo avvicinare mai più.

Aprile 2000
Barbosa ha ormai 79 anni, vedovo, devastato dall’alcol e dalla depressione, una sera si distende nel suo letto ed i suoi fantasmi sono lì ad aspettarlo come ogni volta che chiude gli occhi, puntuali, ma quella sera per la prima ed ultima volta  si addormenta sereno, quella notte la sua dolce Clotilde verrà a prenderlo per mano. Un ictus diranno i medici, in realtà lo aveva già ucciso un gol.
Ai funerali dell’ex portiere, avvenuti nella totale indifferenza del suo popolo, anzi nel triste giubilo di qualcuno, non si presenterà nemmeno un calciatore.
Una storia triste e di povertà che getta una nuova luce sul calcio moderno.
Barbosa soleva dire:
-“La pena carceraria più grande qui in Brasile è 30 anni, io ne ho scontati 50 senza aver commesso nessun reato”-

Oggi, dopo quel 7 a 1, inflitto dai tedeschi alla selecao nel loro stadio, trova in Scolari, Fred e David Luiz il nuovo incubo ma non i nuovi capri espiatori, ed il fantasma di Barbosa può andarsene con un sorriso ed iniziare il suo riposo eterno.
Ma non un sorriso di vendetta o di rimborso, è il sorriso di chi se ne và sperando di poter essere dimenticato.

Io non voglio che Moacir Barbosa venga dimenticato, voglio che venga ricordato per essere stato l’orgoglio di un popolo sottomesso, per non aver mai abbassato la testa, neanche davanti al destino.

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