Da una finestra sulle strade di Rio, dopo la finalina tra
Brasile ed Olanda, persa dai padroni di casa, viene esposto uno striscione
arancione con una scritta bianca: “Barbosa-1950, finalmente ti lasceranno
riposare in pace.”
Moacir Barbosa Nascimento viene alla luce a Campinas, in
Brasile, il 27 marzo 1921, figlio di immigrati africani.
La sua non sarà un’infanzia felice, la plebe indigena, che
ha salutato per sempre la sua terra natia a bordo di navi di mercanti di
schiavi, stenta a sopravvivere nei vicoli mentre la borghesia creola non fa
altro che arricchirsi ed ingrassarsi.
Appena ha la possibilità trova lavoro in una fabbrica di
imballaggi; ma è felice solo quando calcia un pallone di stracci: è come se prendesse
a calci la miseria e la povertà delle sue strade. E lo fa con forza.
Purtroppo i suoi non sono piedi capaci di disegnare,
piuttosto scolpiscono.
Un giorno l’allenatore dell’Ypiranga lo nota, nota il suo fisico possente, i
muscoli guizzanti e le sue braccia robuste che finiscono con mani poderose.
Lo convince a provare giocare in porta, che tra i pali
avrebbe potuto fare la differenza, gli dimostra che campione può essere anche
chi quella rete la difende, invece di gonfiarla.
Alcuni anni dopo sarà il Vasco da Gama a cercarlo e portarlo
nel massimo campionato carioca; il suo stile elegante e senza eccessi, capace
di bloccare un pallone al volo con una sola mano, lo consacra come miglior
baluardo brasiliano e gli spalanca le porte della selecao: è il primo portiere
di colore nella nazionale verdeoro. Oramai è un personaggio di culto, l’orgoglio
dei mulatti: aveva sconfitto il razzismo e aveva dato una dignità agli
emarginati, agli esclusi, ai senza identità e ai senza terra.
1950
Barbosa ha 28 anni, sposato con la dolce Clotilde, e non
vede l’ora di potersi misurare con i portieri più forti del mondo: quell’anno la Coppa Rimet verrà giocata in
Brasile, la prima dalla fine della II guerra mondiale, nel nuovo tempio del
calcio: il Maracanà.
La nazionale carioca passa agevolmente le fasi eliminatorie,
per presentarsi nel girone finale; in questa edizione il comitato abolisce gli
scontri diretti pertanto la coppa verrà assegnata alla squadra che chiuderà in
vetta il quadrangolare conclusivo.
Spazzati via Svezia e Spagna, l’unico ostacolo rimasto è l’Uruguay.
Sembra poco più di una formalità: il divario tra le due
formazioni è enorme, tanto più che ai brasiliani basta un pareggio per
diventare campioni. Nessun uruguaiano crede nell’impresa della propria squadra.
E’ il 16 luglio, per vedere quella partita i moribondi
rinviano la loro morte ed i neonati si sbrigano a nascere.
Mentre le squadre si apprestano a salire la scaletta che
dagli spogliatoi porta al terreno di gioco, l’uruguagio Verela disse al suo
connazionale Miguez:
“Non vedi che faccia da stupido ha il portiere, vorresti
farmi credere che proprio tu non riusciresti a fargli due gol?!”. Tutto questo a mezzo metro da Barbosa.
Ma Moacir li ignora, nella sua difficile vita ha dovuto
subire di ben peggio come ad esempio a Porto Alegre, quando un barbiere gli
spalmò la schiuma sul volto e lo cacciò dicendo che non serviva i negri.
A lui bastano le 200mila voci dello stadio che lo acclamano
per fargli dimenticare.
Il primo tempo termina sullo zero a zero, senza troppi
sussulti, a parte un palo colpito dalla nazionale uruguaiana.
Solamente 45 minuti dividono i brasiliani dal trofeo; il
sogno sta per avverarsi.
Già fuori dallo stadio ci sono le limousine che portano il
nome di ognuno di loro sulla fiancata, erano state già vendute mezzo milione di
magliette con scritto “Brasil campeao”, la zecca stava già preparando i
bozzetti per le medaglie ed il giornale aveva già pubblicato la loro foto in
prima pagina con la scritta campioni. Il Carnevale anticipato per le strade era
pronto a partire.
La selecao si porta anche in vantaggio con una rete di Friaca
al riprendere delle ostilità, la formazione dell’Uruguay sembra stia per
crollare, invece no.
Ad 8 minuti dal termine il cielo si rovesciò, facendo passare
i brasiliani dalla risata al pianto, dalla gioia alla disperazione.
Ghiggia scatta sulla destra ed a farsi incontro a lui a il
terzino Bigode. Barbosa si sposta un po’
sulla destra spettando il passaggio, ma Ghiggia con le ultime forze rimaste
calcia il pallone in quel piccolo spazio, tra il palo e la mano del portiere. Più
un cross che un tiro vero e proprio, ma uno strano effetto ingannò l’estremo
difensore e la palla si insacca in rete.
Al Maracanà cala il silenzio, a nulla serve che tutta la
squadra si lanci in attacco. L’Uruguay è campione del Mondo.
La disperazione corre da i migliaia di poveri stipati nelle
favelas ai milionari chiusi nelle loro fazendas e ville sull’oceano
Si raccontano di decine di malori ed infarti allo stadio, si
raccontano di decine di suicidi nel paese, si racconta di un bambino ritrovato
il giorno dopo sulle gradinate con il volto tra le mani ancora singhiozzante.
Purtroppo non sono leggende.
Barbosa si rende conto che da eroe sta per diventare un
reietto. Ed a nulla serve che vinca il trofeo come miglior portiere della
manifestazione, è lui il capro espiatorio di quella partita.
Dissero di tutto: che aveva lasciato entrare quel gol di
proposito, che un nero non era capace di stare in porta, che la maglietta
bianca non si poteva più indossare e da quel giorno la nazionale brasiliana la
cambiò.
La
Federazione gli consentì di continuare a giocare, per avere
una seconda possibilità, ma il clima non era più come prima, perciò decise di
ritirarsi: i brasiliani lo avevano condannato a morte, ma senza ucciderlo.
Barbosa per strada viene additato come porta-sfortuna ed
evitato, persino gli amici non trovano tempo per dividere una birra al bar; festeggerà
da solo in camera davanti alla tv la vittoria dei Mondiale del Brasile in
Svezia del 58.
Passarono 13 anni da quel pomeriggio, l’ex portiere viene a
sapere che il Maracanà sta cambiando le porte e riesce a procurarsi quella in
cui Ghiggia lo aveva trafitto; la sera stessa organizzò un barbecue con alcuni
amici ancora fedeli: nessuno si accorse che nel fuoco bruciavano i pezzi
verniciati dei due pali. “E’ stata la bistecca più buona che ho mangiato in
vita mia” racconterà in una intervista.
Lavora come custode in una piscina a Rio, negli anni 50 non
si diventava ricchi col calcio e smesso di giocare bisogna arrangiarsi. Anche
la sua amata Clotilde se ne è andata, non per sua scelta, è stata la morte a
portarsela via. Per Barbosa la discesa agli inferi non è ancora finita: un
giorno in un supermercato una donna lo riconosce e dice al bambino che tiene
per mano:
-“Vedi quel signore, un giorno ha fatto piangere il Brasile,
che ci ha fatto perdere i mondiali!”. Ed il bimbo scoppia in un pianto
convulso.
1993
La nazionale brasiliana sta preparando una partita in vista
del campionato mondiale in terra statunitense. A Moacir viene voglia di andare
a salutare la selecao, ma le porte del ritiro gli vengono sbarrate in faccia:
-“Tu sei Barbosa? Quel Barbosa?”-
E mentre si allontana sente una voce che invita la sicurezza
a non farlo avvicinare mai più.
Aprile 2000
Barbosa ha ormai 79 anni, vedovo, devastato dall’alcol e
dalla depressione, una sera si distende nel suo letto ed i suoi fantasmi sono
lì ad aspettarlo come ogni volta che chiude gli occhi, puntuali, ma quella sera
per la prima ed ultima volta si
addormenta sereno, quella notte la sua dolce Clotilde verrà a prenderlo per
mano. Un ictus diranno i medici, in realtà lo aveva già ucciso un gol.
Ai funerali dell’ex portiere, avvenuti nella totale indifferenza
del suo popolo, anzi nel triste giubilo di qualcuno, non si presenterà nemmeno
un calciatore.
Una storia triste e di povertà che getta una nuova luce sul
calcio moderno.
Barbosa soleva dire:
-“La pena carceraria più grande qui in Brasile è 30 anni, io
ne ho scontati 50 senza aver commesso nessun reato”-
Oggi, dopo quel 7
a 1, inflitto dai tedeschi alla selecao nel loro stadio,
trova in Scolari, Fred e David Luiz il nuovo incubo ma non i nuovi capri
espiatori, ed il fantasma di Barbosa può andarsene con un sorriso ed iniziare
il suo riposo eterno.
Ma non un sorriso di vendetta o di rimborso, è il sorriso di
chi se ne và sperando di poter essere dimenticato.
Io non voglio che Moacir Barbosa venga dimenticato, voglio
che venga ricordato per essere stato l’orgoglio di un popolo sottomesso, per
non aver mai abbassato la testa, neanche davanti al destino.
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