domenica 13 luglio 2014

1 rivoluzionario


Il portiere è un predestinato.
Portiere lo sei, non lo diventi; portiere lo sei dentro, nella vita quotidiana, tra i banchi di scuola, in mezzo agli amici.
Fare il portiere è una missione.
Vivi osservando ciò che ti circonda con attenzione controllando tutto per prevedere le cose.
Il portiere è una figura carismatica, impavida, coraggiosa ma anche matta e, perché no, anche un po’ immatura; questi ultimi due aggettivi sono, comunque, una maschera.
Una maschera che consente di dare all’estremo difensore un’aurea di invincibilità ed invulnerabilità perché molto spesso sono persone sensibili, guascone e compagnone nel gioco ma solitarie ed introverse nella vita privata.


La simpatia che Ernesto “el Che” Guevara aveva per il calcio e per lo sport in generale, è un aspetto della sua personalità molto spesso, ed aggiungerei ingiustamente, ritenuto marginale dai biografi.
Di certo sono altri i motivi per cui si ricordano le vicende del rivoluzionario, ma sta di fatto che nella sua vita praticò un gran numero di discipline sportive, segno di una marcata curiosità ed una esigenza continua di misurarsi.

Adorava gli scacchi, buon giocatore di ping-pong,  titolare della squadra di rugby del Liceo, dove veniva ricordato per velocità e grinta.
Il Che è quello con il caschetto

Giocava a golf e padroneggiava nel nuoto, soprattutto nello stile a farfalla, anche se non ebbe mai occasione di disputare gare importanti questa abilità gli tornerà molto utile negli anni da guerrigliero.
Inoltre era un ottimo tiratore, si cimentò nell’equitazione, nel baseball, nel ciclismo e nell’alpinismo, scalando vette oltre i 5000 metri.
Amava molto anche la pesca d’altura, il basket, il canotaggio ed addirittura volare col deltaplano.
La passione per il gioco del pallone traspare soprattutto nel “Notas de viaje”, il diario del viaggio che il futuro rivoluzionario, in quel momento studente di medicina, compì, assieme all’amico Alberto Granado, studente di biologia,  attraverso l’America Latina in sella di una motocicletta (ribattezzata Poderosa II), successivamente a piedi o a bordo di mezzi di fortuna.
La Poderosa oggi

Fu questo girovagare tra illusioni, miserie e speranze a trasformare le loro esistenze: fece nascere la vocazione di difendere i più deboli spingendoli ad abbandonare la vita borghese e sposare un’utopia.
Durante una tappa di questa peregrinazione, nel paese di Leticia, in Colombia, i due giovani universitari furono reclutati come allenatori di una squadretta locale che militava in un campionato interregionale. Di calcio ne masticavano parecchio, sapevano recitare a memoria tutte le formazioni del campionato argentino, anche le più datate.
I risultati però scarseggiavano pertanto decisero di scendere in campo.
Granado era un’ala destra, i suoi amici, con qualche esagerazione, lo chiamavano Pedernera come il campione del River Plate.
Il Che, invece, giocava in porta, un po’ per l’asma che lo aveva colpito all’età dei due anni e un po’ perché uno come lui non possiamo che pensarlo nel ruolo più coraggioso.
Le vittorie cominciarono ad arrivare, con quei due studenti a dare spettacolo in campo: Granado con passaggi millimetrici e geometrici ed Guevara, pur respirando affannosamente, parando l’impossibile.
Purtroppo la formazione dei due “girovaghi” perse solo in finale, ai rigori.
Ma il rapporto con il calcio non finì lì; alcune settimane dopo sono a Bogotà per assistere all’amichevole di lusso tra i Milionarios, dove militavano Pedernera e Alfredo Di Stefano, ed il Real Madrid. Riescono a raggiungere i loro campioni, stringere loro la mano e addirittura farsi regalare i biglietti dell’incontro.
Molti anni dopo durante un’intervista ammise di ricordarsi di quei due studenti arruffati che gli chiesero i biglietti per la partita e soprattutto del futuro rivoluzionario che si presentò a lui dicendo:
-“Piacere, Ernesto Guevara, studente in medicina e portiere per caso”.
Non avrebbe mai creduto di trovarsi di fronte ad un mito nascente.
Ancora episodi di calcio, gli ultimi di quella avventura, li trascorrono nel Lebbrosario di San Pablo in Amazzonia, nella più toccante e scientifica tappa di quel viaggio iniziatico, assieme a quei malati che per un mese assistono ed aiutano senza guanti, camice e mascherine.

Passano gli anni, 10 da quella finale nei campetti di Leticia, Alberto, diventato ricercatore scientifico ed emigrato dall’Argentina a Cuba per portare in quell’isola il proprio aiuto, e Ernesto, ormai diventato il Che eroe, tornano a giocare di nuovo assieme.
Stavolta è Santiago de Cuba, in un incontro universitario ed il Che è protagonista di una partita memorabile.
Granado, nella sua autobiografia, ricorda:
-“In varie occasioni dimostrò di essere sempre lo stesso”
Ernesto “El Che” Guevara rivoluzionario e portiere.

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