Il portiere è un predestinato.
Portiere lo sei, non lo diventi; portiere lo sei dentro,
nella vita quotidiana, tra i banchi di scuola, in mezzo agli amici.
Fare il portiere è una missione.
Vivi osservando ciò che ti circonda con attenzione controllando tutto per prevedere le cose.
Fare il portiere è una missione.
Vivi osservando ciò che ti circonda con attenzione controllando tutto per prevedere le cose.
Il portiere è una figura carismatica, impavida, coraggiosa
ma anche matta e, perché no, anche un po’ immatura; questi ultimi due aggettivi
sono, comunque, una maschera.
Una maschera che consente di dare all’estremo difensore un’aurea
di invincibilità ed invulnerabilità perché molto spesso sono persone sensibili,
guascone e compagnone nel gioco ma solitarie ed introverse nella vita privata.
La simpatia che Ernesto “el Che” Guevara aveva per il calcio
e per lo sport in generale, è un aspetto della sua personalità molto spesso, ed
aggiungerei ingiustamente, ritenuto marginale dai biografi.
Di certo sono altri i motivi per cui si ricordano le vicende
del rivoluzionario, ma sta di fatto che nella sua vita praticò un gran numero
di discipline sportive, segno di una marcata curiosità ed una esigenza continua
di misurarsi.
Adorava gli scacchi, buon giocatore di ping-pong, titolare della squadra di rugby del Liceo,
dove veniva ricordato per velocità e grinta.
Il Che è quello con il caschetto |
Giocava a golf e padroneggiava nel
nuoto, soprattutto nello stile a farfalla, anche se non ebbe mai occasione di
disputare gare importanti questa abilità gli tornerà molto utile negli anni da
guerrigliero.
Inoltre era un ottimo tiratore, si cimentò nell’equitazione,
nel baseball, nel ciclismo e nell’alpinismo, scalando vette oltre i 5000 metri.
Amava molto anche la pesca d’altura, il basket, il
canotaggio ed addirittura volare col deltaplano.
La passione per il gioco del pallone traspare soprattutto nel
“Notas de viaje”, il diario del viaggio che il futuro rivoluzionario, in quel
momento studente di medicina, compì, assieme all’amico Alberto Granado,
studente di biologia, attraverso l’America
Latina in sella di una motocicletta (ribattezzata Poderosa II), successivamente
a piedi o a bordo di mezzi di fortuna.
Fu questo girovagare tra illusioni, miserie e speranze a trasformare
le loro esistenze: fece nascere la vocazione di difendere i più deboli spingendoli
ad abbandonare la vita borghese e sposare un’utopia.
Durante una tappa di questa peregrinazione, nel paese di
Leticia, in Colombia, i due giovani universitari furono reclutati come
allenatori di una squadretta locale che militava in un campionato
interregionale. Di calcio ne masticavano parecchio, sapevano recitare a memoria
tutte le formazioni del campionato argentino, anche le più datate.
I risultati però scarseggiavano pertanto decisero di
scendere in campo.
Granado era un’ala destra, i suoi amici, con qualche
esagerazione, lo chiamavano Pedernera come il campione del River Plate.
Il Che, invece, giocava in porta, un po’ per l’asma che lo
aveva colpito all’età dei due anni e un po’ perché uno come lui non possiamo
che pensarlo nel ruolo più coraggioso.
Le vittorie cominciarono ad arrivare, con quei due studenti
a dare spettacolo in campo: Granado con passaggi millimetrici e geometrici ed
Guevara, pur respirando affannosamente, parando l’impossibile.
Purtroppo la formazione dei due “girovaghi” perse solo in
finale, ai rigori.
Ma il rapporto con il calcio non finì lì; alcune settimane
dopo sono a Bogotà per assistere all’amichevole di lusso tra i Milionarios,
dove militavano Pedernera e Alfredo Di Stefano, ed il Real Madrid. Riescono a
raggiungere i loro campioni, stringere loro la mano e addirittura farsi
regalare i biglietti dell’incontro.
Molti anni dopo durante un’intervista ammise di ricordarsi
di quei due studenti arruffati che gli chiesero i biglietti per la partita e soprattutto
del futuro rivoluzionario che si presentò a lui dicendo:
-“Piacere, Ernesto Guevara, studente in medicina e portiere
per caso”.
Ancora episodi di calcio, gli ultimi di quella avventura, li
trascorrono nel Lebbrosario di San Pablo in Amazzonia, nella più toccante e
scientifica tappa di quel viaggio iniziatico, assieme a quei malati che per un
mese assistono ed aiutano senza guanti, camice e mascherine.
Passano gli anni, 10 da quella finale nei campetti di
Leticia, Alberto, diventato ricercatore scientifico ed emigrato dall’Argentina
a Cuba per portare in quell’isola il proprio aiuto, e Ernesto, ormai diventato
il Che eroe, tornano a giocare di nuovo assieme.
Stavolta è Santiago de Cuba, in un incontro universitario ed
il Che è protagonista di una partita memorabile.
Granado, nella sua autobiografia, ricorda:
-“In varie occasioni dimostrò di essere sempre lo stesso”
Ernesto “El Che” Guevara rivoluzionario e portiere.
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