La storia di una partita di calcio che diventa metafora di
coraggio, lealtà e riscatto.
Ma anche di terrore, sopruso e dominio.
Sarnano è un comune di collina, in provincia di Macerata, nel
cuore dei monti Sibillini delle Marche, con poco più di 3000 abitanti. Un
piccolo borgo medioevale caratteristico però uno dei molteplici paesi ignoti ai
più.
Qui vi è un piccolo stadio intitolato ad un certo Mario
Maurelli; anche questo nome dice poco che niente.
Mario Maurelli
(1914-2000) era un arbitro tra i più noti negli anni 40, sia a livello
nazionale che internazionale.
Tra il 1945 ed il 1948 arbitrerà 98 scontri in serie A e 2
partite di coppa Campioni.
E’ il periodo buio della seconda guerra mondiale; l’Italia è
sotto il nero tacco dello stivale nazista.
Sport come il calcio sono solo dei ricordi, non è più cosa
di tutti i giorni, non è più normalità.
Un giorno, alla porta di Maurelli, bussa un ufficiale
tedesco.
L’arbitro è terrorizzato poiché temeva che quella visita
riguardasse il fatto che suo fratello Mimmo era divenuto partigiano. Infatti
Mimmo. Dopo aver combattuto in Grecia e Albania e dopo aver spalato le macerie
del bombardamento di San Lorenzo a Roma, tra le braccia dei sepolti, allo
sfaldarsi dell’esercito italiano, recuperati degli abiti civili, era tornato
nei luoghi di origine, nascondendosi sull’Appennino insieme ad altri disertori
e partigiani.
In realtà il graduato, essendo un appassionato di calcio, e venuto a sapere
della presenza di quell’illustre cittadino conosciuto per i suoi meriti anche
in terra teutonica, era venuto a “chiedere” di organizzare una partita tra le
sue truppe e una squadra di giovani del luogo, per risollevare il morale dei
soldati, abbattuti dal conflitto e per la distanza da casa.
Uniche condizioni erano che Maurelli avrebbe dovuto
arbitrare l’incontro e che il suo fratello Mimmo avrebbe dovuto giocare,
garantendo però l’incolumità dei giovani italiani che disputeranno l’incontro,
anche se sa bene che sono fuorilegge. Anzi al termine dell’incontro vi sarà
addirittura un rinfresco.
Mario intuisce comunque che le richieste del militare non
lasciano molte possibilità di scelta, anche perché soltanto un mese prima i
tedeschi avevano catturato il partigiano Decio Filipponi, responsabile della morte
di tre soldati nazisti, e, dopo averlo impiccato nella piazza principale, il
suo corpo era stato lasciato appeso per una settimana e mezzo come monito; e
teme rappresaglie.
Il tutto puzza di trappola, creato con il solo pretesto di
catturare i giovani fuorilegge, ma per il bene della popolazione già provata,
dopo un lungo conciliabolo a distanza, una sorta di passaparola segreto,
decidono che quella partita sarebbe meglio giocarla e pertanto la squadra
italiana viene formata.
Così domenica primo aprile 1944 gli undici fuggiaschi
scendono correndo giù dalle colline ed imboccano la piccola porta del campo da
calcio presidiato, posto dietro la chiesa di San Filippo. Per giocare una
partita contro il loro nemico più pericoloso.
Il pallone è già sul posto. Anche gli avversari. I nazisti
con i tacchetti, i partigiani in scarponi da montagna.
La strategia degli italiani è chiara: far passare i 90
minuti senza troppe complicazioni e si avrebbero evitato guai peggiori.
I tedeschi non avevano mai giocato assieme, anzi si
rivelarono dei brocchi e non riescono ad
arrivare in porta; i sarnesi invece sono rocciosi e non resistono alla
tentazione di segnare già dopo 10 minuti. A bordò campo i festeggiamenti per la
rete sono contenuti, vige il terrore.
Nell’intervallo si cambia strategia: “bisogna farli
pareggiare o rischiamo grosso”.
Alla ripresa del secondo tempo Mimmo commette un fallo su
Kobler che regisce, Mario salomonicamente espelle entrambi: Mimmo abbandona il
campo sbraitando mentre il soldato facendo il saluto sull’attenti; Kobler
morirà tempo dopo in seguito ad
un’imboscata.
Il tempo passa e gli
italiani si accorgono che mancano solo 5 minuti alla fine e bisogna far
pareggiare i tedeschi; ci pensa il terzino Lucarini che fingendo di scivolare
davanti ad un avversario lanciato a rete, lo lascia libero davanti il portiere
di pareggiare. Sospiro di sollievo.
Alla ripresa pero gli italiani calciano alto e partano tutti
e 11 all’attacco in un’azione che sembra senza senso.
L’arbitro generosamente fischia la fine dell’incontro. 1 a
1.
I partigiani finiscono la partita come l’avevano cominciata:
correndo, senza guardarsi alle spalle risalgono verso le loro montagne mentre i
nazisti rimangono in campo a ristorarsi.
Un anno dopo il
copione si invertirà, ma per quel giorno, per i ragazzi di Sarnano la vera
vittoria fu non vincere.
Perché, se non la vita, sul campo si erano giocati un bel
pezzo di libertà.
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