Olimpiadi di Berlino del 1936.
Nell’afosa canicola estiva, dalla sua sedia posta tribuna
d’onore dell’Olympiastadion di Berlino, il Fuhrer osserva con un misto di
nervosismo e passione lo svolgersi delle gare di atletica.
Fino a quel momento le olimpiadi si erano rivelate un enorme
successo di immagine per la
Germania: l’imponente e maestosa macchina organizzativa,
mirata ad infondere negli spettatori un senso di temibile rispetto per il
potere nazista e per ottenere consensi, funzionava perfetta e precisa, la Gestapo gestiva la
situazione con la più accurata discrezione mentre sul campo gli atleti tedeschi
facevano scorpacciate di medaglie (alla fine dei giochi saranno 89, di cui 33
d’oro) in tutti gli sport, tranne nell’atletica dove, a parte il lancio del
peso, subivano le superiorità finlandesi nel mezzofondo e quelle statunitensi
nella velocità e nei salti.
Quest’ultimi, di cui i migliori elementi erano atleti di
colore, creavano non pochi imbarazzi al regime nazista ancora in erba ed al suo
mito della razza ariana che li riteneva esseri inferiori.
Già il Fuhrer dovette subire uno schiaffo morale in pieno
volto a causa della vittorie delle medaglie d’oro da parte di Jesse Owens,
atleta afro-americano, nelle gare dei 100 e 200 metri e di staffetta
dei 4x100.
Essendo un atleta polivalente Owens era inoltre iscritto
anche alle gare di salto in lungo, gare dove i tedeschi avevano ancora qualche
ambizione di gloria grazie alla presenza del giovane Long.
Carl Ludwig Long, detto Luz, era un giovane studente di
legge 23enne, alto, biondo, slanciato, carnagione chiara, impersonificava il
prototipo dell’ariano puro; nelle qualificazioni mattutine aveva registrato il
miglior salto tra tutti i concorrenti pertanto Hitler riponeva grandi speranze
nel suo pupillo per affermare la supremazia sportiva germanica.
In realtà il favorito era l’atleta di colore, anche se lo
stile di salto che aveva era piuttosto imperfetto, ma durante le qualificazioni
stava per essere escluso dalla finale a causa dei due salti sbagliati: il primo
per averlo scambiato con un salto di riscaldamento mentre il secondo per averlo
effettuato in totale confusione mentale e provato dalla stanchezza degli sforzi
precedenti; lo spettro dell’eliminazione già cominciava a profilarsi dietro
l’angolo.
Ecco che l’aiuto arriva dall’ariano Luz, che, mosso dal più
grande spirito di fair-play e nobiltà d’animo, si avvicinò ad Owens e gli
disse:
“ Un atleta come te
potrebbe qualificarsi ad occhi chiusi”.
Inoltre gli suggerì di staccare almeno una ventina di
centimetri prima della linea di battuta e per realizzare questa strategia di
prudenza aveva appoggiato una maglietta, altri parlano di un semplice
fazzoletto bianco, a fianco della pedana, nel punto ideale di stacco.
Grazie a questo stratagemma e, soprattutto, confortato dalla
lealtà del tedesco, Owens eseguì perfettamente il salto ed riuscì a qualificarsi
per le finali.
Come da pronostico l’atleta dell’Alabama conquistò l’oro olimpico, il
quarto, grazie ad un salto di ben 8,06 metri; alle sue spalle si piazzò Luz con
un balzo di 7,87.
Il Fuhrer, visibilmente deluso, era indispettito dal fatto
che il protocollo imponesse che avrebbe dovuto recarsi alla premiazione e
stringere la mano al vincitore, ma Hitler si era defilato: la storia racconterà
per impegni improvvisi, la leggenda per non dover stringere la mano ad un
atleta di colore, la realtà è ben diversa.
Long era subito corso da Owens per congratularsi e lo aveva
abbracciato amichevolmente; quella immagine subito immortalata da tutti i fotografi
presenti divenne icona immortale di quelle olimpiadi e della fratellanza tra
popoli.
Purtroppo su quella foto e sui filmati del pubblico festante
per la vittoria dell’atleta di colore calò la forte scure della censura; ogni
fotogramma era controllato dal regime e da questo usato per la propria
glorificazione.
I due atleti avevano imboccato assieme il tunnel che portava
verso gli spogliatoi quando incontrarono nientemeno che il Fuhrer venuto a
complimentarsi con Long.
La testimonianza diretta di Arturo Maffei, l’atleta italiano
arrivato quarto, spazza via le ombre leggendarie di quel momento:
“Hitler andò davanti a Owens e gli fece il saluto a
braccio teso, proprio nel momento in cui Jesse gli tendeva la mano per
stringerla. Allora fu Hitler a tendere la mano, ma intanto Owens, correggendo
il primo atteggiamento, aveva portato la sua alla fronte per eseguire il saluto
militare. Questione di secondi, poi Hitler passò oltre. Decidete voi chi fu a
rifiutare la stretta di mano. Ma andò proprio così: alla Ridolini.”
Intanto l’amicizia tra i due atleti andava fortificandosi
nei giorni successivi: passeggiavano assieme per il villaggio olimpico
discutendo di politica, atletica e d’arte. Al termine dei giochi si scambiarono
gli indirizzi e continuarono a scriversi ininterrottamente.
Per Owens la vita post-olimpiadi non fu quella del campione
adulato ed acclamato ma piuttosto quella del fenomeno da baraccone: cominciò a
lavorare per una compagnia itinerante, un misto tra circo di periferia e
baraccone da luna-park, dove faceva gare di corsa ad handicap con i cittadini e
prove di velocità contro i cavalli purosangue.
Passò ad essere il preparatore atletico della squadra di
basket degli Harem Globetrotters, scendendo anche lui sul parquet.
Morì a 66 anni per cancro ai polmoni.
Per Luz il destino fu inizialmente meno crudele.
Riuscì a terminare gli studi e diventare avvocato, si sposò
e divenne padre di un maschio e continuò la sua attività di saltatore in lungo
conquistando primati che rimarranno imbattuti in Germania per oltre 40 anni;
oltretutto il suo status di atleta internazionale gli aveva evitato il richiamo
alle armi.
Purtroppo però la situazione per il Reich cominciava a
precipitare, bisognava rimpiazzare i caduti; fu così che un giorno, nelle sua
residenza ad Amburgo, arrivò la cartolina di precetto: veniva mobilitato col
grado di tenente maggiore ed assegnato in Sicilia.
Scherzo del destino, proprio lui doveva dirigere le
operazioni contro gli americani, azione che in cuor suo riteneva profondamente
ingiusta, che a un americano scriveva nei momenti più bui; anche dal fronte
continuava a mantenere una fitta corrispondenza con Owen, intessendo parole di
pace.
Mio caro amico Jesse, dove mi trovo, sembra che non
vi sia null’altro se non sabbia e sangue. Io non ho paura per
me, ma per mia moglie e il mio bambino, che non ha mai realmente
conosciuto suo padre. Il mio cuore mi dice che questa potrebbe essere
l’ultima lettera che ti scrivo. Se così dovesse essere, ti chiedo
questo: quando la guerra sarà finita, vai in Germania a trovare mio
figlio e raccontagli di suo padre. E raccontagli anche che neppure la
guerra è mai riuscita a rompere la nostra amicizia. Tuo fratello, Luz.
Long sapeva che momenti del genere, di quando sorridevano
assieme con appuntate delle medaglie
sportive al petto non sarebbero tornati mai più, perciò ne
affidava all’amico il ricordo ed il compito di tramandarli.
Il 14 giugno del 1943 l’esercito americano attaccò le
fragili postazioni tedesche a sud di Caltagirone e Long risulterà tra i
dispersi. In realtà Luz gravemente ferito verrà catturato dai soldati alleati e
trasportato nell’ospedale da campo
inglese. Spirò dopo 4 giorni di agonia.
Nel caos di quel periodo nessuno si rese conto di chi fosse
quel soldato ferito e poi deceduto pertanto fu tumulato in una fossa comune.
Solo nel 1950 la Croce Rossa
rinvenne ed identificò i suoi resti nel cimitero di guerra di Gela per
traslarli in quello di Motta
Sant’Anastasia, dove riposano tuttora.
Owens mantenne la promessa, incontrò il figlio dell’amico
partecipando alle sue nozze e gli raccontò del padre che non riuscì a conoscere
bene e morto in una terra lontana; di lui disse:
Si potrebbero fondere tutte le medaglie che ho vinto, ma
non si potrebbe mai riprodurre l’ amicizia a 24 carati che nacque sulla pedana
di Berlino.
Long morì a 30 anni, una piccola storia che sbiadiva
all’ombra di quella immortale di Jesse Owens.
Spirò così, come tanti altri soldati, senza far rumore
poiché il furore dalle esplosioni è troppo forte e non lascia la possibilità di
udire il cessare di un battito.
Non era solamente un campione, era prima di tutto un
giovane, un giovane dall’animo nobile e sensibile che mai si sarebbe adattato a
quel fanatismo che, dominando la
Germania di quei tempi, lo rese vittima delle tensioni di
quella guerra.
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