domenica 16 novembre 2014

Il re del metro quadro



Terrorizzati fuggono i superstiti sotto una pioggia incessante di calcinacci e polveri, mentre tutto intorno gli edifici, simbolo del potere, deflagrano sotto i carichi di morte degli aeroplani.
Le telecamere mandano in diretta le immagini del massacro in tutto il mondo che, attonito ed angosciato, si interroga sull’incertezza del futuro.
E’ l’11 settembre. Del 1973. In Cile.

Il presidente, asserragliato all’interno del palazzo della Moneda, ormai certo della riuscita di quel golpe militare, dopo un toccante messaggio radio alla nazione si suicida con una scarica di mitra.
Termina così l’esperimento socialista del governo di Unidad Popular di Salvador Allende abbattuto dal colpo di stato di Augusto Pinochet.
Salito al potere quest’ ultimo istituirà un regime militare che verrà ricordato come uno dei più schifosi della storia., un’orrenda spirale di piombo e terrore.

Salvador Allende
Augusto Pinochet

A diversi chilometri di distanza, isolata e senza né radio e né giornali, si trova in ritiro la nazionale cilena, la Roja, che sta terminando il programma di
preparazione per lo spareggio contro la Russia, in terra sovietica, per la qualificazione dei Mondiali del 1974.
I rumori assordanti dei bombardamenti sul palazzo presidenziale arrivano ugualmente ai giocatori tra cui comincia a serpeggiare il timore e la paura per la sorte dei propri cari.
Tra i più angosciati c’è Carlos Caszely, a quei tempi considerato il più forte giocatore cileno di sempre, soprattutto per le sue aperte simpatie socialiste e l’amicizia personale con l’ormai ex presidente Allende.

Il giovane Caszely assieme al presidente Allende
Carlos Humberto Caszely Garrido nasce a Santiago del Cile nel 1950, figlio di ferroviere di origini ungheresi, ultimo di tre fratelli, esordisce in prima squadra nel Colo Colo a soli 17 anni.
Non è ne alto ne magro, ma è dotato di piedi raffinati, dribbling secco, gran colpo di testa e, soprattutto, un fiuto del gol invidiabile tanto da fargli guadagnare il soprannome di O rey del metro cuadrado, il re del metro quadro, perché se arrivava o riceveva palla in area di rigore era sicuramente gol.
Tutte questi doti gli permisero di vincere tanto con il suo Colo Colo e di segnare 29 gol con la maglia della Roja. Meglio di lui solo Marcelo Salas ed Ivan Zamorano.




Intanto, mentre la squadra partiva per la capitale sovietica, la giunta militare cominciava la sua opera sistematica di eliminazione fisica dei cosiddetti “nemici dello stato”, facendo fucilare e sparire a centinaia tra operai, artisti, avversari politici, studenti e semplici sospetti. Molti di loro non sono ancora stati ritrovati. Le donne vengono violentate e torturate, dai militari e dai loro cani.

I giocatori,  che sotto minaccia sono costretti a tacere sulla situazione interna del loro paese, trovarono ad accoglierli un clima ostile; sebbene gli Usa avessero formalmente riconosciuto il governo militare di Pinochet, gli URSS ritirarono il loro ambasciatore e ruppero ogni contatto diplomatico con il Cile.
Il 26 settembre, con una temperatura di 5 gradi al di sotto dello zero, si svolse la partita di andata del doppio confronto. Eroicamente La Roja resiste agli attacchi della corazzata sovietica inchiodando il risultato finale sullo 0-0.
Ogni pronostico rimaneva aperto per la gara di ritorno che doveva svolgersi nello Stadio Nazionale di Santiago, il tempio del calcio andino ormai diventato da settimane un centro di detenzione e morte.
I sovietici, con l’appoggio del blocco orientale e di alcuni stati africani, protestò con forza con la FIFA: “Chiediamo che il match di ritorno sia disputato in campo neutro, visto che nello stadio di Santiago, inzuppato del sangue dei patrioti cileni, gli sportivi sovietici non possono giocare per ragioni etiche”.
La FIFA organizzò una delegazione, nelle persone di Atilio D'Almeida e Helmuth Kaiser, da recare in terra cilena per valutare la situazione.
Nonostante centinaia di persone fossero ancora incarcerate nei sotterranei, guardate con i mitra spianati perché non alzassero la voce, e gli spogliatoi ancora macchiati di sangue, la commissione sceglie di chiudere gli occhi davanti a quel campo di concentramento e da il via libera: la partita dovrà svolgersi allo Stadio Nazionale.
L’URSS si rifiutò di giocare, rinunciando di fatto alla possibilità di qualificarsi ai Campionati Mondiali; le ragioni umanitarie di tale scelta consentivano ai sovietici di presentarsi al mondo come i difensori della giustizia, della pace e della democrazia, anche se la verità sulla buona fede della Federazione è più ambigua di quanto i proclami dei governi o gli articoli di giornali sottoposti a censura lasciassero credere all’epoca, bisogna ricordare che solo 5 anni prima i loro tank entravano sanguinosamente a Praga.
Temevano che una eventuale sconfitta in terra cilena potesse avere forti ripercussioni politiche sulla nomenclatura comunista del paese.

Il boicottaggio sovietico spalancò le porte dei Mondiali al Cile, un successo imbarazzante ma non per il regime che vuole glorificarsi con una parata.
Fu così che fu inscenata la più” Patetica partita della storia”.
Il giorno 21 novembre del 1973, alla Stadio Nazionale di Santiago, davanti ad una folla di oltre 17000 spettatori (e soldati) la Roja scende in campo contro il fantasma della nazionale sovietica.
11 contro 0, l’infamia del regime contro la dignità di chi provava a ribellarsi.
Il regolamento prevedeva che tutti i giocatori cileni dovessero toccare la palla per poi siglare la rete della vittoria. (Per gli annali sarà il capitano Valdes)
Caszely pensa all’insubordinazione: quando gli arriverà la palla lui la calcerà fuori. Poi la sfera gli arriva tra i piedi e lui la gioca, anche lui prende parte a quella sceneggiata; gli è mancato il coraggio per dire no, troppa paura forse o troppa impotenza.
 Negli spogliatoi avrà un mancamento mentre il compagno di squadra Chamaco Valdes, socialista convinto, vomita anche l’anima.
Per intrattenere gli spettatori fu organizzata una amichevole contro il Santos, orfano di Pelè. Il Cile incassò un sonoro 5 a 0.
La vergogna per quel mancato gesto di rifiuto Carlos la proverà a cancellare qualche mese dopo, alla vigilia della Coppa del Mondo. Pinochet vuole vedere e salutare la Roja prima del Mondiale. Durante l'incontro il dittatore saluta e stringe la mano a tutti i componenti della squadra. A tutti. meno che a uno: Carlos Caszely, che le sue mani le tiene bene intrecciate dietro la schiena, quando Pinochet si presenta da lui. Un gesto, ripetuto ogni volta che incontrerà Pinochet che gli vale ancor di più l'etichetta del Rojo, del Rosso.
Quando il regime comincia a colpire duramente anche gli sportivi, Carlos lascia il suo Colo Colo e la sua terra per andare a giocare in Spagna, nel Levante prima e nell’Espagnol poi.
Caszely con la maglia del Levante
La spedizione mondiale in terra tedesca l’anno successivo non fu un successo poiché vennero eliminati al primo turno. L’avventura di Caszely duro solo 67 minuti: fu il primo giocatore della storia dei campionati del Mondo a cui venne mostrato il cartellino rosso, prima le sanzioni si comunicavano solo verbalmente ai giocatori.

Per anni gli stessi vertici militari imporranno l’allontanamento del giocatore dalla nazionale, nonostante anche in terra iberica non smetta di segnare.
I simboli della squadra ora sono altri: Elias Figueroa, vicino a Pinochet, ed Oscar Fabbiani, argentino appositamente naturalizzato.

Nel 1978 ritorna in patria, per stare vicino alla madre Olga: la DINA la terribile polizia cilena, aveva incarcerato la donna e per settimane, prima di venir liberata, fu vittima di torture, stupri e vessazioni. Carlos vide quella prigionia come una ritorsione per le sue idee e le sue prese di posizione
Ritornerà a vestire la maglia del Colo Colo, dove, per 3 anni consecutivi, sarà capocannoniere.


 
A 32 anni suonati, a furor di popolo, ritorna nel giro della nazionale per giocare i Mondiali del 82 in Spagna.
Anche in questa edizione la sua stella non brilla: sbaglierà anche un rigore decisivo contro l’Austria. La stampa del regime trovò in questo gesto il proprio capro espiatorio, sostenendo che aveva sbagliato di proposito come forma di protesta contro la dittatura.
Giocherà altri tre anni in Nazionale, con un' ultima partita e un ultimo supergol contro il Brasile. Ma con il calcio non si spegne la sua voglia di opporsi alla dittatura. E' il 1985 e Caszely, ormai un ex della Nazionale, incontra ancora Pinochet alla Moneda, il palazzo presidenziale.
Si presenta e stavolta lo saluta (ma non gli stringe la mano). Ha una cravatta rossa vistosissima.
“Lei porta sempre la cravatta?” domanda il dittatore.
“Sì, non me la tolgo mai. La porto dalla parte del cuore”.
”Io gliela taglierei” è la risposta di Pinochet, mimando le forbici con le dita.

1988
Pinochet, convinto di aver ancora la popolazione dalla sua parte, indisse un plebiscito in cui veniva chiesto di pronunciarsi in favore o contro un ulteriore mandato presidenziale di 8 anni.
Prima della consultazione, il fronte del “no” pubblicò un video promozionale che invitava i cileni a voltare pagina e a pensionare il dittatore. Una dolce signora, ormai avanti con gli anni ma con la luce della speranza negli occhi, narra alla telecamera il sequestro e le torture subite, confessa che i supplizi non avevano lasciato segni sul corpo, ma tracce indelebili nella sua mente e nel suo cuore: per questo, sprona gli elettori, deve aprirsi una fase nuova, all’insegna della vera democrazia, della pace e dell’allegria, senza più i protagonisti della stagione dell’odio. Poi, la ripresa si allarga e nell’inquadratura compare Caszely, che riafferma i concetti appena enunciati e conclude svelando il motivo per cui è necessario votare “no: “Per questo il mio voto è No. Perché la sua allegria è la mia allegria. Perché i suoi sentimenti sono i miei sentimenti. Perché il giorno di domani potremo vivere in una democrazia libera, sana, solidale, che tutti possiamo condividere. Perché questa bella signora è mia madre.
 A seguito del referendum, che si svolse il 5 ottobre 1988, il cui esito fu considerato regolare, a sorpresa i sostenitori del “no” vinsero con il 55,99% dei voti. Si tennero le prime elezioni libere: Pinochet lasciò la presidenza l’11 marzo 1990 e gli succedette il Presidente eletto Patricio Aylwin.
 Caszely rifiuterà la carriera politica, pur partecipando a diverse iniziative di tipo sociale, scegliendo di raccontare il calcio da giornalista e commentatore Tv, ruolo che svolge ancora oggi.
Per i cileni, 40 anni dopo, il mito è lui, non solo per quei gol nell’ultimo metro quadro, lui personaggio profondo, molto più d’una sagoma di campione, piatta, stinta dal tempo che imbianca i capelli e sbiadisce i ricordi.
Quello di Carlos Caszely rimarrà vivido come il rosso delle maglie del Cile. Rosso di sangue e di passione.

domenica 5 ottobre 2014

Paura di giocare



I mondiali di calcio del 1974, svoltisi nell’ex Germania dell’Ovest, videro la partecipazione dello Zaire, formazione proveniente dalla zona sub-sahariana.
In realtà non era la prima squadra africana a prendere parte al torneo: già in passato vi fu l’Egitto, nell’edizione del 1934, ed il Marocco nei più recenti giochi del 1970 in Messico, ma era il primo team a provenire da quella che definiamo “Africa nera”.
Maglia verde prato con le tre strisce gialle dell’Adidas e stemmone con il disegno di un leopardo sul petto, questa compagine un po’ naif e sprovveduta si rese subito molto simpatica al pubblico; una sorta di armata Brancaleone ma che ben rendeva l’idea della condizione e del livello del calcio africano di quel periodo.
Nonostante questo e nonostante il girone di ferro in cui erano finiti: cioè con Brasile campione uscente ma orfano di Pelè,  con la Scozia del futuro rossonero Joe Jordan, unica squadra ad arrivare ai mondiali senza perdere nemmeno un incontro nelle qualificazioni e la nazionale slava, compagine sempre temibile, i giocatori partirono dalla propria terra carichi di entusiasmo e buoni propositi, forti anche dei premi promessi dal presidente Mobutu.

Piccolo passo indietro…
Joseph-Desirè Mobutu guidava il timone della Zaire nelle vesti di presidente, in realtà un vero e proprio dittatore che vedeva nello sport l’ideale strumento di propaganda per il regime e per imporre il suo scomodo personaggio.
Salito al potere grazie ad un colpo di stato supportato dagli Usa nel 1965, fa fuori, nel senso letterario del termine, tutti i suoi avversari politici e sviluppa un profondo culto della personalità.
Innanzitutto incomincia un processo di decolonizzazione integralista, liberando il paese da tutte le influenze dell’ex colonizzatore belga: a quel tempo lo stato africano era conosciuto come Congo, con capitale Leopoldville; il despota ne cambiò il nome in Zaire (che resterà fino al 1997) rinominando la capitale in Kinshasa, città che aveva ripulito dalla criminalità con una maxi retata, conclusasi con una esecuzione sommaria di massa nei sotterranei dello stadio.
Impose gli abiti tradizionali negli edifici pubblici e che ogni abitante abbandonasse il proprio nome francofono e ne assumesse uno tipicamente tribale, lui stesso diventò Mobutu Sese Seko Kuku Ngbendu Wa Zabanga che tradotto sarebbe l’altisonante: Mobutu il guerriero che va di vittoria in vittoria senza che nessuno possa fermarlo.

Il dittatore inoltre riteneva che anche lo sport dovesse fare la sua parte: incominciò a far tornare in patria tutti i giocatori congolesi che militavano nel campionato belga e, a proprie spese, ne creò uno interno nello Zaire.
Ed il calcio zairese si rivela vincente grazie ai successi in coppa d’Africa nel 1968 e nel 1974; anche a livello di club le soddisfazioni non mancano tanto che nell’arco di sei anni, l’equivalente della nostra Coppa Campioni viene vinta per ben tre volte da squadre locali.
Alla guida della nazionale, orgoglio del presidente, viene messo lo slavo Vidinic (aveva guidato la nazionale del Marocco ai giochi del 1970, perciò già esperto di calcio africano) solo perché la Fifa non ammette deroghe sui deliri di un dittatore che, totalmente pieno di se, pretendeva di non affidare i sui ragazzi a nessun allenatore se non a lui stesso; sfortunatamente per Mobutu lo sport ha dei regolamenti da rispettare. Riesce a metterci però egualmente lo zampino: sostituisce il soprannome con cui i giocatori nazionali venivano chiamati da “Leoni” a “Leopardi” in onore del fatto che lui indossasse sempre in pubblico un cappello fatto di pelle di leopardo.
Ad ogni modo, anche senza il despota alla guida, la squadra riesce a staccare il biglietto per i Mondiali.
L’ordine del presidente è perentorio: “Onorare il proprio paese e soprattutto lui, che si identificava in tutto e per tutto con la propria nazione, e per esteso anche con la propria squadra, non coprirsi di ridicolo ed evitare figuracce”. Inoltre promette ai giocatori case, auto e denaro.

Rieccoci in terra teutonica, nel giorno della partita d’esordio dei “Leopards” contro gli scozzesi; tutto sommato non termina neanche male poiché, anche se perdono per 2 a 0, gli africani giocano a viso aperto con uno sprezzante 4-2-4 che diverte il pubblico neutrale.
Meno divertito però è Mobutu che, non potendo tollerare nessuna sconfitta, comunica telefonicamente con la squadra che tutti i premi sono stati revocati.
Scoppia una vera ribellione nello spogliatoio, i leopardi si rifiutano di giocare la seconda partita contro la Yogoslavia.
Dopo ore di trattative l’incontro si gioca, anche se per gli africani sarebbe stato meglio il contrario dato che la partita termina con un devastante 9 a 0, un disastro completo, con il portiere Kazadi che in lacrime chiede di essere sostituito poiché non riesce a sopportare l’umiliazione. Narra però una leggenda che l’allenatore Vidic ricevette una telefonata in panchina dove veniva “caldamente” invitato a sostituire il portiere.
Mobutu è completamente fuori di sé; manda i suoi scagnozzi nell’albergo dove è in ritiro la squadra e, dopo averla rinchiusa in una stanza, comunicano questo messaggio molto chiaro:
“Al Brasile bastano 3 gol per qualificarsi, fin qui va bene, ma se perderete con 4 gol di differenza non prendetevi la briga di tornare a casa e soprattutto, ricordatevi, che la giurisdizione delle vostre famiglie sarà di nostra totale competenza.!”.
La tensione sale alle stelle: il sogno di giocare i mondiali per la gloria ed i premi si trasforma nell’incubo di ritrovarsi a giocare una partita per la vita, sia loro e sia quella delle loro famiglie.

Sabato 22 giugno
I leopardi tentano di arginare in tutte le maniere la corazzata verdeoro che, arrivati all’85imo, ha già archiviato la partita con le reti di Jairzinho, Rivelino e Valdomiro; in questo minuto, però, la storia lascia il posto alla leggenda.
Lo Zaire commette fallo su Valdomiro poco fuori la propria area di rigore. Da quella posizione e con il sinistro magico e fulmineo che si ritrova Rivelino è praticamente un calcio di rigore.
Mille e più pensieri si affollano nella mente dei giocatori mentre si dispongono in barriera: la paura delle ritorsioni di Mobutu, la fine dei loro compagni, le sorti delle loro famiglie.
No, non può finire così, non deve finire così! Non è giusto!
E’ questo che sconvolge i pensieri del terzino Ilunga Mwepu. Decide di agire.
Si stacca dalla barriera prima del fischio e corre verso la palla, calciandola con forza, rischiando di colpire Rivelino, e spedendola ben oltre il centrocampo.
All’arbitro non resta altro che ammonirlo.
In realtà Ilunga non avrebbe neanche dovuto giocare quella partita, poiché nel match contro gli slavi aveva rimediato un cartellino rosso, ma per uno scambio di persona a scontare la giornata di squalifica fu l’attaccante N’Diaye, nonostante lo stesso terzino avesse ammesso la propria colpa.
Il pubblico sugli spalti e gli stessi giocatori brasiliani, dopo un attimo di stordimento generale, esplodono in una fragorosa risata:
“Poveri africani, come hanno fatto ad arrivare sino a questo punto senza conoscere le regole fondamentali del calcio?”. Questo è il pensiero che serpeggia nella mente di tutti, o per lo meno in quella di chi non conosceva i retroscena.
Ne scatta anche un parapiglia tra i calciatori: provati dallo stress e sentendosi derisi, i leopardi si accapigliano con gli avversari, fortunatamente la rissa viene subito sedata.
I verdeoro trovarono tutto ciò molto divertente; il calcio di punizione seguente si risolve con un niente di fatto, poi i giocatori  fecero melina fino al triplice fischio, probabilmente colti da un senso di compassione evitarono di infierire.

Per anni quel gesto è stato visto come un segno di infantilità ed arretratezza culturale calcistica africana, lontano ancora dalle cime del professionismo; in realtà quella folle corsa verso il pallone, dettato forse dalla paura, era un completo atto di insubordinazione e quel calcio un “basta” gridato con rabbia e forza contro quello sport ormai completamente saldato con la politica.
Mwepu aveva salvato la vita ai suoi compagni ed alle loro famiglie, di certo non l’onore del despota; tornati in patria i loro contratti vennero cestinati e loro furono bollati come “persone non gradite”, Mobutu fece cadere nell’oblio calcio e calciatori che si ritrovarono a vivere quasi da emarginati ed in povertà.
Per cancellare quello che ritenne un danno all’immagine del suo sanguinoso regime organizzò, nell’ottobre dello stesso anno, il famosissimo incontro di boxe “The rumbe in the jungle” tra Muhammad Alì e George Foreman. Il match si svolse nello stadio di Kinshasa, probabilmente ancora macchiato di sangue dell’esecuzioni avvenute nei sotterranei.

Nel 2002 lo stesso giocatore rivela i retroscena di quei tristi mondiali dichiarando, inoltre, in una intervista alla BBC:
“Sono orgoglioso, e lo sarò sempre, di aver rappresentato l’Africa nera alla Coppa del Mondo. Ma abbiamo stupidamente creduto che saremmo tornati a casa diventando milionari. Guardatemi ora, vivo come un vagabondo. Quando tornammo in Zaire i nostri contratti vennero stracciati e nessuna promessa mantenuta. Mobutu sosteneva che avessimo riportato indietro di venti anni la percezione del calcio in Africa. No, no, tornassi indietro lavorerei sodo per diventare un contadino e nulla di più

Sono passati 40 anni da quel giorno, ben 10 mondiali, eppure quel gesto, complice la visibilità che offre Youtube, viene considerato ancora estremamente comico, poiché il dramma di quei ragazzi non è stato diffuso come si sarebbe dovuto.
In pochi comprendono che Mwepu è stato un eroe, un simbolo di una ribellione giusta e pura contro un totalitarismo presente ormai anche all’interno dello sport.

lunedì 28 luglio 2014

L'angelo col casco



Per chi ama il rutilante pianeta della Formula 1,  dove importa il raziocinio, freddezza, calcolo, avventatezza, poco gli interessa della fisionomia che si cela all'interno del casco. Volti normali, di persone che potrebbero confondersi con tante altre, ma capita che dietro la visiera si nasconda il volto di un angelo, un angelo sfortunato.

Maria De Villota nasce a Madrid nel 1980; figlia d’arte, seconda di tre figli, suo padre è il grande Emilio De Villota, corridore della Mc Laren sulla fine degli anni 70 e fondatore di una scuola per piloti in Spagna (tra i suoi allievi Fernando Alonso).
Ha sempre respirato aria di motori e velocità, per forza di cose, ma la passione lei l’aveva nel sangue, a dispetto della madre che desiderava che i figli si affezionassero ad altri sport.
Maria aiuta il padre nella scuola, imparando molto così sulle tecniche di curva e delle manovre dei pedali ed accompagnandolo in giro per il mondo.
A Cuba, la ragazza ha ormai 16 anni, ed è con il padre invitato per una competizione urbana tra ex piloti di Formula 1; si corre anche una gara per giovani promesse e Maria scalpita per parteciparvi.
Ma non ha ne la tuta ne il casco perciò se li farà prestare dal padre, certo la tuta è troppo grande per il suo metro e 63 (contro l’1 e 80 del genitore) e deve mettere una maglietta all’interno del casco per aver gli occhi a livello della visiera, eppure in queste condizioni e nonostante finisca la competizione fuori pista, registra il miglior tempo.
I contorni della stella cominciano a prendere forma.
Entra nella scuderia Teyco, dove corre anche il fratello, in Formula Toyota, arrivando a diventare, nel 2000, vice campionessa di Spagna.
Passa così alla Formula 3, purtroppo un po’ invisibile per i primi 2 anni, ma lei non demorde e si impegna al massimo per migliorare e guadagnarsi il rispetto nei box: nel 2004 arriva il podio, prima donna in Spagna a raggiungere tale successo.
Continua a correre, cambiando scuderie, fino a quel giorno del 2011. La de Villota è a Valencia per il Gran Premio e staziona davanti al camion di Bernie Ecclestone fino a che non riesce a parlargli:
-“Voglio correre per la Formula 1, sono pronta”.
Ecclestone ci pensa qualche minuto:
“Tieniti pronta”
Maria comincia così la preparazione fisica, cura l’alimentazione, riempie la casa di appunti e disegni in vista della prova ufficiale fissata per 3 agosto 2011.
Davanti al padre, che ha voluto vicino per quel giorno, corre la sua gara: da lì a breve firmerà il suo contratto come collaudatrice di Formula 1 del team Marussia..
In molti vedono in quella mossa una mera trovata pubblicitaria, in effetti la de Villota è veramente una donna molto bella.
Maria non voleva essere una semplice donna nella F1, in passato ve ne erano stato altre. Voleva essere semplicemente un pilota in più che voleva lavorare ed apprendere e guadagnarsi il suo posto ufficiale.

Passano i mesi, quasi 12 da quella corsa  di prova, ed arriva una chiamata che le comunica che dovrà testare un’auto in vista del Gran Premio di Silverstone, all’eliporto inglese di Duxdorf.
Il giorno del test si infila il casco ed è attanagliata da un dubbio:
-“Twittare o non twittare?” D’altronde Maria è figlia del suo tempo, ma decide di non farlo, la sua prima volta in F1 deve essere intima.
Sale sulla monoposto ed incomincia a fare i giri di prova. La pista è molto bagnata, ma sembra andare tutto bene, anzi fa alcuni giri seguendo il percorso in senso contrario.
Non è veloce e si avvicina al punto in cui deve fermarsi quando improvvisamente l’auto accelera da sola. Maria prova a mettere il motore in folle ma 4 secondi dopo lo schianto contro il portellone di un camion lasciato incautamente aperto a bordo pista. Ci metteranno un'ora per estrarla dall'abitacolo.

Ed il coma…4 giorni di coma farmacologico, lunghissime ore di operazioni e di disperazione, il mondo dei motori sconvolto, anche che riteneva l’entrata della giovane spagnola in F1 come una trovata pubblicitaria.
Ma le tempra è forte…si risveglia dal quel sonno profondo e comincia una lunga risalita verso la vita.
«La prima volta che sono riuscita a vedermi allo specchio dopo l’incidente con il volto completamente scoperto avevo 140 punti e sembrava che fossero stati cuciti con una fune da barca. Inoltre avevo perso il mio occhio destro: ero terrorizzata.
Tornerò a correre? Mi vorrà ancora bene il mio Rodrigo? Ci siamo appena conosciuti sicuramente mi abbandonerà. Che donna posso essere così pelata, senza un occhio, distrutta? Non voglio vedere nessuno. Mi lasceranno uscire? Con questa faccia spaventerò tutti. Ho sonno. Sono stanca. Non ce la faccio.”
Oltre all'occhio Maria perde il senso l'olfatto e del gusto.
C’è paura, frustrazione per un sogno andato in frantumi, desolazione forse addirittura vergogna.
17 giorni dopo quel terribile incidente Maria torna in Spagna.
In lei c’è vita, c’è la forza che le permette di fare tanti piccoli passi, tante piccole riuscite e tutte quelle piccole rinascite per far di lei una persona nuova.

A cominciare dai capelli, adesso portati corti e di un biondo-bianco, da quelle bende colorate per l’occhio così da poter giocare ad una sorta di pirata hippie, dal volto ancora bellissimo ricostruito con le fibre della bamba, dal sorriso, rimasto si un po’ sbilenco ma solare e fiero, tinto di rosso fuoco, la riscoperta del proprio corpo, allenatissimo, con le prime passeggiate in riva al mare con il suo Rodrigo sempre a fianco ed il suo cane con cui ancora correre.

E l’impegno; l’impegno con la sicurezza stradale e nelle piste, tanto che gira a mostrare il casco distrutto di quell’incidente; impegno come ambasciatrice per la Woman in Motorsport, impegno come angelo dei malati, soprattutto dei bambini, con cui ha una certa empatia.

Sostiene ancora operazioni chirurgiche ma Maria ha la forza di andare avanti ancora; scriverà la sua biografia e sull’incidente: “La vita è un regalo” e comincia un tour promozionale dove si racconta, la stella continua  di nuovo a brillare.
Purtroppo la vita gli regala solo 15 mesi dopo  Duxdorf; viene ritrovata morta, nel letto di una camera d’albergo a Siviglia dove era per pubblicizzare il proprio libro, a causa dei danni neurologici dovuti a quel famoso incidente.

È difficile pensare alla sua figura unicamente in cronometraggi di pista. Non avrà forse corrisposto ai criteri necessari per vincere nei circuiti e non avrà avuto il talento della velocità. Ma con la sua fortezza e il suo coraggio María de Villota ha dimostrato di avere lo spirito di un vero pilota.
E la sua stella continua a correre le piste, sui caschi di ex colleghi come Alonso e Massa che hanno aggiunto cinque punte stilizzate alle loro teste.

sabato 26 luglio 2014

The Snail



Pensando alle gare di corsa dei 100 metri le immagini che ci appaiono nella mente sono scatti felini, partenze brucianti ed arrivi al foto-finish.
Pensiamo a Jesse Owens, che bruciava le piste all’ombra del Reich, a Ben Johnson, il figlio del vento, finito nello scandalo doping , fino al più recentissimo ed irriverente Usain Bolt.
Per chi pratica questo tipo di disciplina sa benissimo quanto siano lunghi quei secondi che dividono i blocchi di partenza dalla linea di arrivo. E ogni corridore è un mondo a se: chi ripensa alle falcate, chi a trovare il giusto mix tra cattiveria ed agonismo e chi pensa semplicemente di arrivare in fondo, per primo.
Eppure c’è chi, in una gara di velocità pura come questa pensa solo ad arrivare al traguardo.


2001
Batteria dei 100m per la qualificazione per i Mondiali di atletica di Daegu.
Tra gli scattisti vi è il giovane Sogelau Tuvalu.
E’ un 17enne, di mestiere panettiere che proviene dalle isole Samoa, un arcipelago nel Pacifico quasi invisibile nelle carte geografiche, che noi conosciamo solitamente per lo stile dei tatuaggi, la nazionale temibile di rugby e per una lunga tradizione nel wrestling, mai per sportivi legati al mondo dell’atletica, ad eccezione dello sprinter Nakanelua che nel 2001 percorse i 100 metri in 10,81, un’autentica mosca bianca.

Vive nella parte orientale dell’arcipelago, in quelle che vengono definite Samoa Americane, ultimo posto abitato al mondo in cui avviene ogni giorno il cambio di data e dove si può ancora acquistare la New Coke, variante della Coca Cola introdotta nel 1985 e uscita di produzione nel 2002.

Il fisico non certo da corridore, poco tonico e pesante, più da gettista del peso, disciplina dove tra l’altro aveva anche provato la qualificazione ai Mondiali, senza riuscirvi.
Ma il giovane non si perde d’animo ed ecco l’idea: allenarsi per i 100 metri!!!!
Inizia così ad allenarsi in palestra per 4 ore al giorno, senza esagerare, per un mese. Una preparazione che non servirebbe neanche a far bella figura in una gara da oratorio.
Eppure è lì, settima corsia, nelle batterie preliminari di qualificazione pronto a far mangiar la polvere agli avversari, a gente che fa l’atleta di professione.

Sui blocchi di partenza è impacciato, visibilmente fuori posto tanto che, dopo lo sparo dello starter, è già indietro di una decina di metri dal resto del gruppo.

Quei cento metri si trasformano in chilometri; sbuffa, arranca, vacilla ma alla fine taglia quel traguardo, mentre già qualche suo avversario è alle prese con i giornalisti o diretto verso lo spogliatoio.
Il cronometro segna un impietoso 15,66…5 secondi dopo il vincitore.

Fatto sta che il pubblico si divide a metà: quello che condanna per aversi messo così in ridicolo su di un palcoscenico di tali dimensioni e quello che ne apprezza il coraggio e lo spirito decoubertiano.
Riesce persino ad oscurare per una giornata la stella giamaicana Usain Bolt, chiamato a riscattarsi dalle ultime deludenti prestazioni.
Davanti alla sarcastiche domande dei giornalisti la spiazzante risposta:
-“Ho creduto in me stesso. Questo è un sogno che si realizza.”


Oggi Sogelau è chiamato “The Snail” la lumaca, ma la sua storia chi insegna che a volte, nello sport, se non si può eccellere in positivo vale la pena rischiare di “eccellere” in negativo.
L’importante è mettersi in gioco e crederci per davvero, anche perché, quante sono le lumache che corrono i 100 metri in 15 e 66?

mercoledì 23 luglio 2014

Sindelar e quel calcio alla svastica



3 aprile 1938
L’eco degli stivali che marciano al passo dell’oca rimbomba lungo le vie di Vienna, la svastica sventola su bandiere e striscioni in un clima apparentemente festoso, in realtà imposto a suon di ordinanze dal regime nazista.
Si festeggia l’ Anschluss, l’annessione dell’Austria alla Germania del Furher che la trasformerà da stato sovrano in anonima provincia, avvenuta alcuna settimane prima
60000 spettatori sono assiepati sugli spalti del Prater per guardare l’incontro calcistico organizzato per suggellare l’evento: la Germania si scontrerà contro l’Austria, per quella che passerà alla storia come l’Anchlussspiel, la partita della riunificazione.
Per la nazionale austriaca sarà l’ultima partita che giocherà in quando i calciatori, diventati tedeschi, verranno integrati nell’undici di Berlino. Per l’occasione hanno avuto un “permesso speciale” per disputare questo incontro con il quale saluteranno il proprio pubblico prima dello scioglimento.
Finisce così la leggenda del Wunderteam, la squadra delle meraviglie, che per anni ha dato vita ad un gioco veloce e spettacolare, sotto la guida del ct Hugo Meisl, purtroppo morto poco tempo prima di questa sfida.
A guidarli sarà Matthias Sindelar.
Matthias Sindelar, detto “Der Papierene”, Cartavelina, è il 35enne capitano dell’ Austria Vienna e della nazionale, autentico fuoriclasse, dal gioco molto intelligente e dal fisico asciutto in modo impressionante, da cui il soprannome.
Alto, scheletrico, occhi azzurri infossati, non sembrava nemmeno uno sportivo, eppure era anche denominato “il Mozart del pallone” per via della sua armoniosità nei movimenti, controllo palla, abilità nel dribbling e nello smarcarsi dagli avversari

Nasce nel 1903, a Kozlov, un paesino nella Moravia, oggi Repubblica Ceca, che ai quei tempi faceva parte dell’impero austro-ungarico, da famiglia cattolica (anche se alcuni la descrissero ebrea), operaia e molto povera che alcuni anni dopo emigrò a Vienna per cercare di migliorare la propria condizione.
Il piccolo Matthias comincia dare i primi calci ad un  pallone, dimostrando grande talento soprattutto nel dribbling.
Nel 1917 la famiglia Sindelar riceve un brutto colpo: il padre Jan, muratore, muore sul fronte nella battaglia dell’Isonzo pertanto il futuro campione è costretto a trovare lavoro per aiutare economicamente la propria madre lavandaia e le tre sorelle, finirà in una piccola officina meccanica.
Ma nei suoi pensieri c’è sempre il pallone e la sua classe non passa inosservata, infatti gli osservatori  dell’Herta ASV di Vienna, dopo averlo tesserato, a soli 18 anni lo fanno debuttare nella massima serie austriaca.

Nel 1923, a causa di una caduta in piscina, si infortuna gravemente al menisco del ginocchio destro rischiando di dover abbandonare il calcio giocato, a quei tempi era un trauma non facilmente curabile e poteva mettere fine alla carriera di un calciatore. Fortunatamente verrà operato da uno dei più famosi medici viennesi e potrà tornare a giocare in meno di un anno. L’inconscia paura di ripetersi infortunare nuovamente lo tormenterà per il resto della sua carriera: da quel momento in poi giocherà sempre con una fascia elastica sul ginocchio infortunato.

L’anno seguente l’Herta, a causa dei dissesti finanziari in cui navigava, dovette cedere i miglior giocatori; Sindeler aveva anche valutato di venir a giocar in Italia, a Trieste, salvo poi scegliere di rimanere in patria nell’Austria Vienna, squadra a cui rimarrà fino alla fine della sua carriera.
Grazie alle sue giocate di alta classe ed alla presenza di altri campioni austriaci ed ungheresi questa squadra diventa una delle più forti compagini europee, arrivando a vincere tutto quello che era possibile. Fu in questo periodo che sviluppò una sorta di allergia all’allenamento privilegiando altre attività: pare che lo vedessero di più le tenutarie di bordelli che l’allenatore durante la settimana.
Una situazione di cui il ct era disposto a chiudere un occhio, anzi entrambi, visto che solitamente la domenica Cartavelina consegnava la vittoria alla squadra.
Inoltre Sindelar sarà uno dei pionieri di quei calciatori-pubblicità, che prestano la loro immagine a fine commerciale

Nel 1926 entrerà a far parte della nazionale dove realizzerà prestazioni eccezionali tanto da riuscire a partecipare al Mondiale del 1934 in terra italiana.
In quella edizione dei giochi l’Austria si classificherà quarta, eliminata proprio dagli azzurri in una partita molto contestata e probabilmente pilotata dal Duce. In quel incontro Sindeler verrà marcato da Luisito Monti, il mastino di Pozzo, marcatura talmente efficace da farlo finire in ospedale per essere rimesso in sesto.
In quel periodo di riposo forzato conobbe Camilla Castagnola, giovane infermiera, studentessa di tedesco, italiana di origine milanese, fascista ed ebrea. Diventerà sua moglie.

Questo era l’uomo che guidò l’Austria durante la sua ultima partita; fu lo stesso Sindeler ad obbligare la squadra a rispolverare le vecchie divise bianche e rosse, gli stessi colori della bandiera austriaca, ormai ammainata.
La partita, sostanzialmente equilibrata, anche se i tedeschi faticano molto a star dietro alle giocate di “cartavelina”, termina il primo tempo a reti bianche.
Al 62° è proprio il capitano Sindeler a sbloccare il risultato con un preciso colpo di destro. Correrà a festeggiare con una sorta di irrisorio balletto sotto la tribuna dove sono seduti i dignitari tedeschi..
Al 71°, il terzino Sesta calcia il pallone da 40 metri, che assumendo una strana traiettoria, si insacca sul fondo della rete per il 2 a 0; risultato che non cambierà fino alla fine dell’incontro.
Questo canto del cigno del Wunderteam ha dimostrato che almeno la dignità non può essere ammessa con la forza.
Il protocollo impone che le formazioni, prima di uscire, debbano fare il saluto a braccio teso verso i gerarchi presenti nelle tribune d’onore. Lo fanno tutti, tranne Sesta e Sindeler che non salutano e restano con le braccia lungo i fianchi sotto gli sguardi irritati delle autorità naziste.
Sindeler odia l’Anschluss, odia i nazisti ed odia Hitler, sia per motivi politici, sia per orgoglio nazionale, sia per amore; ecco i motivi perché non tende quel braccio.
Inoltre rifiuta categoricamente di far parte della nazionale tedesca, sostenendo di aver ormai troppi anni per continuare a giocare ed il ginocchio malandato.
Due gesti che gli costeranno cari.
Già Goebbels lo aveva velatamente minacciato dopo l’incontro, in seguito anche la Gestapo, ma veniva sempre guardato con un occhio di riguardo: troppo famoso ed inoltre pensavano che, magari per spavento, decidesse di giocare nella nazionale teutonica.

Intanto attorno a lui la situazione comincia a precipitare e, se non per i calciatori, il maglio delle leggi razziali colpisce i dirigenti sportivi. Uno tra tutti è Michl Schwarz,ebreo ed ex presidente del FK, che ormai vive come un reietto, dimenticato da tutti, tranne che da Matthias:
“-Il nuovo Führer dell'Austria Vienna ci ha proibito di salutarla, ma io vorrò sempre dirle "Buongiorno" ogni volta che avrò la fortuna di incontrarla.
Cartavelina giocherà qualche altra partita, l’ultima proprio contro l’Herta, solo perché la Gestapo glielo permette per la sua popolarità.
Grazie all’intervento dell’allenatore della nazionale italiana Pozzo, riesce ad entrare nello stadio di Parigi per assistere alla finale dei mondiali tra gli azzurri e gli ungheresi, la Germania venne eliminata, a sorpresa, dalla Svizzera agli ottavi.
Quando il pubblico parigino, fortemente anti-nazista, si rese conto della presenza del campione sugli spalti incominciò ad intonare la Marsigliese; Sindeler capì che quel saluto negato mesi prima aveva avuto un’eco anche fuori dai confini del Reich,
Scelse di ritornare in Austria e di non scappare, anche quando ne ebbe avuto l’occasione, per restare come punto di forza e di speranza per chi non ne aveva la possibilità di farlo.
Durante la notte dei cristalli la sua casa venne assalita dalla folla ma lui e sua moglie non vennero toccati, il calciatore si rese conto però di essere diventato una pedina sacrificabile.

Il 23 gennaio1939 Sindeler viene ritrovato morto assieme a sua moglie nella loro abitazione dalla Gestapo. Si dirà esalazioni di monossido di carbonio a causa di una stufa difettosa, si dirà suicidio per depressione, chi omicidio politico. La Gestapo li farà cremare e seppellire in gran fretta tra mille dubbi, reticenze, sospetti e testimonianze contrarie e soprattutto farà sparire tutti i documenti del caso nel buco nero delle vicende che è meglio lasciar scivolare nella penombra.
Il giorno dei funerali oltre 40000 tifosi accompagnavano in silenzio il feretro piangendo, come piangeva chi lo seguiva dai balconi e dalle terrazze.
Oltre 15000 telegrammi di condoglianze arrivarono nella sede dell’Austria Vienna.

Quel giorno veniva sepolto un eroe e con lui una nazione intera inglobata nell’espansionismo nazista, ma mi piace pensare che mentre la città salutava per l’ultima volta il suo campione, diventato uno dei tanti, troppi simboli della follia hitleriana, qualcuno abbia trovato nel gesto di quel saluto rifiutato, la forza di resistere in quei tempi che si presentavano durissimi.
Lui, così scheletrico ed esile, si ergeva contro il nazismo che invase il suo paese; una carta velina sì, ma che Hitler non riuscì a piegare.




sabato 19 luglio 2014

La vittima del Maracanà



Da una finestra sulle strade di Rio, dopo la finalina tra Brasile ed Olanda, persa dai padroni di casa, viene esposto uno striscione arancione con una scritta bianca: “Barbosa-1950, finalmente ti lasceranno riposare in pace.”

Moacir Barbosa Nascimento viene alla luce a Campinas, in Brasile, il 27 marzo 1921, figlio di immigrati africani.
La sua non sarà un’infanzia felice, la plebe indigena, che ha salutato per sempre la sua terra natia a bordo di navi di mercanti di schiavi, stenta a sopravvivere nei vicoli mentre la borghesia creola non fa altro che arricchirsi ed ingrassarsi.
Appena ha la possibilità trova lavoro in una fabbrica di imballaggi; ma è felice solo quando calcia un pallone di stracci: è come se prendesse a calci la miseria e la povertà delle sue strade. E lo fa con forza.
Purtroppo i suoi non sono piedi capaci di disegnare, piuttosto scolpiscono.

Un giorno l’allenatore dell’Ypiranga  lo nota, nota il suo fisico possente, i muscoli guizzanti e le sue braccia robuste che finiscono con mani poderose.
Lo convince a provare giocare in porta, che tra i pali avrebbe potuto fare la differenza, gli dimostra che campione può essere anche chi quella rete la difende, invece di gonfiarla.

Alcuni anni dopo sarà il Vasco da Gama a cercarlo e portarlo nel massimo campionato carioca; il suo stile elegante e senza eccessi, capace di bloccare un pallone al volo con una sola mano, lo consacra come miglior baluardo brasiliano e gli spalanca le porte della selecao: è il primo portiere di colore nella nazionale verdeoro. Oramai è un personaggio di culto, l’orgoglio dei mulatti: aveva sconfitto il razzismo e aveva dato una dignità agli emarginati, agli esclusi, ai senza identità e ai senza terra.

1950
Barbosa ha 28 anni, sposato con la dolce Clotilde, e non vede l’ora di potersi misurare con i portieri più forti del mondo: quell’anno la Coppa Rimet verrà giocata in Brasile, la prima dalla fine della II guerra mondiale, nel nuovo tempio del calcio: il Maracanà.

La nazionale carioca passa agevolmente le fasi eliminatorie, per presentarsi nel girone finale; in questa edizione il comitato abolisce gli scontri diretti pertanto la coppa verrà assegnata alla squadra che chiuderà in vetta il quadrangolare conclusivo.
Spazzati via Svezia e Spagna, l’unico ostacolo rimasto è l’Uruguay.
Sembra poco più di una formalità: il divario tra le due formazioni è enorme, tanto più che ai brasiliani basta un pareggio per diventare campioni. Nessun uruguaiano crede nell’impresa della propria squadra.
E’ il 16 luglio, per vedere quella partita i moribondi rinviano la loro morte ed i neonati si sbrigano a nascere.
Mentre le squadre si apprestano a salire la scaletta che dagli spogliatoi porta al terreno di gioco, l’uruguagio Verela disse al suo connazionale Miguez:
“Non vedi che faccia da stupido ha il portiere, vorresti farmi credere che proprio tu non riusciresti a fargli due gol?!”.  Tutto questo a mezzo metro da Barbosa.
Ma Moacir li ignora, nella sua difficile vita ha dovuto subire di ben peggio come ad esempio a Porto Alegre, quando un barbiere gli spalmò la schiuma sul volto e lo cacciò dicendo che non serviva i negri.
A lui bastano le 200mila voci dello stadio che lo acclamano per fargli dimenticare.

Il primo tempo termina sullo zero a zero, senza troppi sussulti, a parte un palo colpito dalla nazionale uruguaiana.
Solamente 45 minuti dividono i brasiliani dal trofeo; il sogno sta per avverarsi.
Già fuori dallo stadio ci sono le limousine che portano il nome di ognuno di loro sulla fiancata, erano state già vendute mezzo milione di magliette con scritto “Brasil campeao”, la zecca stava già preparando i bozzetti per le medaglie ed il giornale aveva già pubblicato la loro foto in prima pagina con la scritta campioni. Il Carnevale anticipato per le strade era pronto a partire.
La selecao si porta anche in vantaggio con una rete di Friaca al riprendere delle ostilità, la formazione dell’Uruguay sembra stia per crollare, invece no.

Riesce a pareggiare con Schiaffino e continua ad attaccare.
Ad 8 minuti dal termine il cielo si rovesciò, facendo passare i brasiliani dalla risata al pianto, dalla gioia alla disperazione.
Ghiggia scatta sulla destra ed a farsi incontro a lui a il terzino Bigode.  Barbosa si sposta un po’ sulla destra spettando il passaggio, ma Ghiggia con le ultime forze rimaste calcia il pallone in quel piccolo spazio, tra il palo e la mano del portiere. Più un cross che un tiro vero e proprio, ma uno strano effetto ingannò l’estremo difensore e la palla si insacca in rete.
Al Maracanà cala il silenzio, a nulla serve che tutta la squadra si lanci in attacco. L’Uruguay è campione del Mondo.
La disperazione corre da i migliaia di poveri stipati nelle favelas ai milionari chiusi nelle loro fazendas e ville sull’oceano
Si raccontano di decine di malori ed infarti allo stadio, si raccontano di decine di suicidi nel paese, si racconta di un bambino ritrovato il giorno dopo sulle gradinate con il volto tra le mani ancora singhiozzante.
Purtroppo non sono leggende.
Barbosa si rende conto che da eroe sta per diventare un reietto. Ed a nulla serve che vinca il trofeo come miglior portiere della manifestazione, è lui il capro espiatorio di quella partita.
Dissero di tutto: che aveva lasciato entrare quel gol di proposito, che un nero non era capace di stare in porta, che la maglietta bianca non si poteva più indossare e da quel giorno la nazionale brasiliana la cambiò.
La Federazione gli consentì di continuare a giocare, per avere una seconda possibilità, ma il clima non era più come prima, perciò decise di ritirarsi: i brasiliani lo avevano condannato a morte, ma senza ucciderlo.
Barbosa per strada viene additato come porta-sfortuna ed evitato, persino gli amici non trovano tempo per dividere una birra al bar; festeggerà da solo in camera davanti alla tv la vittoria dei Mondiale del Brasile in Svezia del 58.

Passarono 13 anni da quel pomeriggio, l’ex portiere viene a sapere che il Maracanà sta cambiando le porte e riesce a procurarsi quella in cui Ghiggia lo aveva trafitto; la sera stessa organizzò un barbecue con alcuni amici ancora fedeli: nessuno si accorse che nel fuoco bruciavano i pezzi verniciati dei due pali. “E’ stata la bistecca più buona che ho mangiato in vita mia” racconterà in una intervista.
Lavora come custode in una piscina a Rio, negli anni 50 non si diventava ricchi col calcio e smesso di giocare bisogna arrangiarsi. Anche la sua amata Clotilde se ne è andata, non per sua scelta, è stata la morte a portarsela via. Per Barbosa la discesa agli inferi non è ancora finita: un giorno in un supermercato una donna lo riconosce e dice al bambino che tiene per mano:
-“Vedi quel signore, un giorno ha fatto piangere il Brasile, che ci ha fatto perdere i mondiali!”. Ed il bimbo scoppia in un pianto convulso.

1993
La nazionale brasiliana sta preparando una partita in vista del campionato mondiale in terra statunitense. A Moacir viene voglia di andare a salutare la selecao, ma le porte del ritiro gli vengono sbarrate in faccia:
-“Tu sei Barbosa? Quel Barbosa?”-
E mentre si allontana sente una voce che invita la sicurezza a non farlo avvicinare mai più.

Aprile 2000
Barbosa ha ormai 79 anni, vedovo, devastato dall’alcol e dalla depressione, una sera si distende nel suo letto ed i suoi fantasmi sono lì ad aspettarlo come ogni volta che chiude gli occhi, puntuali, ma quella sera per la prima ed ultima volta  si addormenta sereno, quella notte la sua dolce Clotilde verrà a prenderlo per mano. Un ictus diranno i medici, in realtà lo aveva già ucciso un gol.
Ai funerali dell’ex portiere, avvenuti nella totale indifferenza del suo popolo, anzi nel triste giubilo di qualcuno, non si presenterà nemmeno un calciatore.
Una storia triste e di povertà che getta una nuova luce sul calcio moderno.
Barbosa soleva dire:
-“La pena carceraria più grande qui in Brasile è 30 anni, io ne ho scontati 50 senza aver commesso nessun reato”-

Oggi, dopo quel 7 a 1, inflitto dai tedeschi alla selecao nel loro stadio, trova in Scolari, Fred e David Luiz il nuovo incubo ma non i nuovi capri espiatori, ed il fantasma di Barbosa può andarsene con un sorriso ed iniziare il suo riposo eterno.
Ma non un sorriso di vendetta o di rimborso, è il sorriso di chi se ne và sperando di poter essere dimenticato.

Io non voglio che Moacir Barbosa venga dimenticato, voglio che venga ricordato per essere stato l’orgoglio di un popolo sottomesso, per non aver mai abbassato la testa, neanche davanti al destino.